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Le conseguenze di una Commissione «politica»

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bruxelles e roma

Le conseguenze di una Commissione «politica»

È possibile che il contrasto tra Jean-Claude Juncker e Matteo Renzi sia dovuto alla loro differente personalità. È possibile anche che Renzi usi la polemica contro la Commissione per fini di politica interna (sottraendo alle opposizioni grilline e leghiste un argomento elettorale formidabile). Tuttavia, sarebbe un errore ricorrere solamente a fattori idiosincratici o elettoralistici per spiegare un conflitto così inedito tra il governo italiano e la Commissione europea. Dietro quel conflitto vi è un cambiamento sostanziale nel funzionamento del cosiddetto “esecutivo europeo”, ovvero la sua politicizzazione. Il mio argomento è che la decisione presa dai maggiori partiti politici europei di presentare un loro spitzenkandidat nelle elezioni per il Parlamento europeo del maggio 2014 ha messo in moto una dinamica politica che ha contribuito al conflitto in corso.

Mi spiego cominciando con una piccola storia. Pochi giorni fa ho partecipato ad un convegno scientifico a Bruxelles cui ero stato invitato per discutere il ruolo del Consiglio Europeo e il suo rapporto con le altre istituzioni comunitarie. Una delle sessioni del convegno è stata introdotta dal capo di gabinetto del presidente Juncker, un giurista tedesco di forte personalità e di altrettanta sicura competenza. La sua tesi è stata la seguente. La Commissione Juncker è divenuta un organo politico, non amministrativo, perché è ora guidata dallo spitzenkandidat del partito che aveva ottenuto più seggi nelle elezioni parlamentari del maggio 2014 (il partito popolare europeo). Da questo punto di vista, ha aggiunto, Juncker avrebbe più legittimità democratica di Renzi, in quanto quest’ultimo non è stato mai eletto dai cittadini del suo Paese. Non ha importanza, qui, discutere questa critica (come ho fatto nel convegno): è vero che Renzi è un primo ministro non-eletto, tuttavia nei sistemi parlamentari la legittimità dei capi di governo viene dal parlamento e non dagli elettori.

Ciò che è importante rilevare è invece l’approccio politico del capo di gabinetto di Juncker: il tradizionale civil servant ha lasciato il posto ad un political operator. Tant’è che la sua attuale posizione istituzionale deriva dal precedente impegno a guidare la campagna elettorale di Juncker nelle elezioni del maggio 2014. La Commissione, da garante dell'interesse europeo (come recitano i Trattati sin da quelli di Roma del 1957), si percepisce ora come l’espressione di una maggioranza elettorale. Quindi si sente legittimata ad interpretare politicamente i poteri di cui dispone, tra cui quelli alla supervisione e approvazione delle leggi di stabilità degli stati membri. Peraltro, se il presidente della Commissione è o si percepisce come un leader politico, allora ciò cambia la natura dei suoi rapporti con i capi di governo nazionali e le loro rappresentanze permanenti a Bruxelles. Con una Commissione politicizzata anche queste ultime si devono politicizzare. Se la politica europea era già da tempo divenuta politica interna (e non più politica estera) di uno stato, la politicizzazione della Commissione accelererà inevitabilmente la trasformazione delle rappresentanze permanenti a Bruxelles in organismi del governo (più che dello stato) nazionale. Il passaggio da Stefano Sannino (ambasciatore di carriera di grande valore) a Carlo Calenda (politico di altrettanto grande vigore), nel ruolo di rappresentante permanente dell’Italia a Bruxelles, è la conseguenza di tale processo di politicizzazione.

Ci si potrebbe chiedere: non è questo l’esito desiderato dagli europeisti più convinti, ovvero trasformare la Ue in uno stato federale parlamentare (come quello tedesco), di cui la Commissione è il governo politico? Ma le cose non stanno così. È vero che Juncker ha ricevuto il voto di una maggioranza del Parlamento europeo costituita di popolari, socialisti e liberali, ma è anche vero che quei partiti non si sono riconosciuti in un programma chiaro e coerente. Ognuno di quei partiti è una confederazione di partiti nazionali, al cui interno le divisioni tra stati sono spesso più rilevanti delle convergenze ideologiche. Se il Pd di Renzi rappresenta la delegazione più grande del partito dei socialisti e democratici, ciò non significa che le altre delegazioni nazionali dello stesso gruppo parlamentare condividano le posizioni della delegazione italiana. Anzi. I socialdemocratici tedeschi non si sono mai espressi a favore di un’interpretazione flessibile del Patto di stabilità e crescita, così come i socialisti francesi non hanno alcuna intenzione di contrapporsi ai popolari tedeschi, che dell'austerità sono i campioni, rischiando così di mettere in discussione il rapporto previlegiato tra Hollande e Merkel. Tant’è che i socialisti francesi (Moscovici e Sapir) hanno subito preso le distanze dalle richieste del primo ministro socialista italiano (Renzi), dimenticando che il loro leader (Hollande) vinse le elezioni presidenziali del 2012 proprio denunciando i vincoli del Fiscal Compact. Il risultato è che abbiamo una Commissione politicizzata che usa la sua discrezionalità senza i vincoli di una vera maggioranza parlamentare. Ad esempio, come ha ben spiegato Fabrizio Forquet (Il Sole 24 Ore del 4 febbraio), non si capiscono le ragioni per cui vengono considerate fuori dal Patto di stabilità e crescita le spese per fronteggiare le migrazioni che vengono dalla Turchia, ma non quelle per fronteggiare le migrazioni che sono venute e vengono dalla Libia e dal Mediterraneo. Ecco come stanno le cose. Lo spitzenkandidat ha depotenziato il Parlamento europeo in quanto istituzione, tant’è che il suo presidente, il socialista tedesco Martin Schulz, sembra aver perso la voce. Nello stesso tempo, il capogruppo del partito popolare europeo, il tedesco bavarese Manfred Weber, si è imposto come l’instancabile controllore della Commissione con il consenso dei socialisti francesi (entrambi a beneficio del loro governo nazionale). Politicizzandosi, la Commissione ha perso la vecchia neutralità tecnica senza acquisire una nuova legittimazione politica. Dietro lo spitzenkandidat continua a nascondersi, seppure in modo più opaco, l’asse tedesco-francese.

L’interesse dell’Italia è quello di promuovere un’Unione tra eguali, non solo sostenere la Ue in quanto tale. Questo obiettivo non può essere raggiunto né chiedendo un posto in più al tavolo intergovernativo che conta, né riproponendo l’illusione parlamentarista. Se si vuole uscire dall’angolo in cui rischiamo di finire, occorre perseguire una strategia integrativa che susciti nuove alleanze proprio per la sua capacità di promuovere un governo politico europeo che non sia più prigioniero degli Stati più grandi.

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