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Le mani su un «business» da 18 miliardi

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Le mani su un «business» da 18 miliardi

La spesa della Regione Lombardia per la sanità è di quasi 18 miliardi di euro all’anno. Una massa di denaro enorme, capace di suscitare interessi illeciti e aspirazioni di facili guadagni. Le cifre, del resto, parlano da sole. Secondo la Corte dei conti della Lombardia, nel 2014 le spese stanziate per il Fondo sanitario regionale sono state pari a 17,5 miliardi di euro. A questa cifra si aggiungono ulteriori voci contabili tecniche che portano il totale a 17,9 miliardi. La parte maggiore dei fondi - oltre 15,3 miliardi - è rappresentata dai trasferimenti alle aziende sanitarie pubbliche (Asl, ospedali, istituti di ricerca). Oltre 108 milioni sono destinati ai trasferimenti agli enti sanitari privati per le funzioni non tariffabili, per il finanziamento dei livelli uniformi di assistenza e per progetti; 165,7 milioni sono destinati alle spese direttamente gestite dalla regione per attività di carattere strumentale alle funzioni sanitarie, come i servizi informatici, studi e ricerche, servizi di comunicazione. La spesa socio-sanitaria è pari invece a 1,7 miliardi destinati quasi totalmente ai trasferimenti alle Asl e per la restante parte alle spese gestite direttamente dalla regione.

Ecco perché l’inchiesta dei magistrati della procura di Monza con i suoi 21 arresti, tra i quali il presidente della commissione Sanità della Regione Lombardia, il leghista Fabio Rizzi, non è la prima e probabilmente non sarà neanche l’ultima della serie.
Il primo scossone degli ultimi anni sulla sanità lombarda arriva a metà del 2011 con l’inchiesta sull’ospedale San Raffaele, fino ad allora esempio di efficienza meneghina. La procura di Milano apre un’inchiesta per bancarotta in seguito al dissesto del gruppo ospedaliero fondato da don Luigi Verzé. Scattano gli arresti e arrivano le prime condanne. L’indagine però resta al di fuori della Regione Lombardia. Almeno per il momento. Perché nelle maglie degli inquirenti è finito un mediatore fino ad allora sconosciuto al grande pubblico. Si chiama Pierangelo Daccò e verrà condannato in appello a nove anni di carcere, pena confermata in Cassazione, per il crack del San Raffaele. Daccò, si scoprirà, è amico dell’allora governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, che insieme a lui viene indagato in un’altra inchiesta. Si tratta dell’indagine sulle presunte tangenti pagate per far ottenere alle strutture della Fondazione Maugeri di Pavia i rimborsi della regione.

L’inchiesta sulla sanità lombarda arriva al piano più alto di Palazzo Lombardia. Formigoni è accusato di aver ricevuto “utilità” per 49 milioni insieme al suo coinquilino a amico storico Alberto Perego. Di questa cifra, in particolare, 39 milioni sarebbero la presunta corruzione legata alla vicenda Maugeri e 7,6 milioni sarebbero, invece, le presunte mazzette per il caso San Raffaele. Utilità che Formigoni, secondo l’accusa, avrebbe ricevuto sotto forma di viaggi all’estero, e altri benefit di lusso come yacht e vacanze in resort. Il processo è in corso.

Il 13 ottobre dello scorso anno, un nuovo scossone colpisce il palazzo della Regione Lombardia. La giunta è cambiata e al vertice da circa due anni non c’è più Formigoni ma il leghista Roberto Maroni. In carcere finisce il vicepresidente ed ex assessore alla Salute, Mario Mantovani, fedelissimo di Silvio Berlusconi. Tra le accuse che lo portano agli arresti ci sono anche alcuni appalti per il servizio di trasporto degli emodializzati nella regione. Nell’inchiesta della procura di Milano finisce indagato anche il leghista Massimo Garavaglia, assessore al Bilancio e vicino al governatore lombardo. È il primo colpo alla maggioranza che ha portato al vertice della regione Roberto Maroni, il governatore che ha fatto della riforma della sanità uno dei suoi cavalli di battaglia. Quella riforma, che doveva rapresentare una svolta rispetto ai 18 anni di governo di Formigoni, era stata varata nell’agosto 2015 ed era stata scritta proprio da Fabio Rizzi, il leghista finito in carcere ieri. La legge ha permesso la riorganizzazione delle 15 Asl in 8 Aziende territoriali, ma non ha cancellato le cosiddette “funzioni non tariffabili”, cioè i finanziamenti arbitrari stabiliti con delibera di anno in anno, messe sotto la lente nelle inchieste giudiziarie .