I no dei sindaci spinti dai comitati nimby, le paure dei burocrati riottosi alla responsabilità di firmare atti, le accortezze dei parlamentari, le inchieste delle procure, la rotta ondivaga del governo, l’emotività del referendum, le suggestioni politiche dei presidenti regionali. Così l’Italia in pochi mesi si è fatta sfuggire fra le dita più di 10 miliardi di investimenti internazionali e nazionali nel settore minerario del petrolio e del metano. È la stessa Italia che a parole cerca di attrarre investimenti ma continua a scacciarne, che a parole vuole fare a meno del petrolio e del gas ma continua a consumarne sempre più furiosamente, la stessa Italia che invoca l’energia rinnovabile ma viene bloccata da sindaci e comitati nimby fino a far crollare la produzione verde nazionale e a costringere le imprese italiane dell’energia pulita a investire all’estero.
Investimenti in fuga
Nell’autunno scorso le compagnie petrolifere avevano programmato investimenti in Italia per circa 16,2 miliardi. Ora le imprese del settore hanno tagliato i programmi. Meno di 6 miliardi di euro. Dieci miliardi svaporati.
Un colpo pesante è venuto dalla Legge di stabilità che a fine dicembre, nel tentativo di evitare il referendum, ha reintrodotto il divieto di cercare e sfruttare i giacimenti nelle acque territoriali. Il tentativo di evitare il referendum non è riuscito, ma nel frattempo sono sparite dallo scenario economico 8 su 9 istanze di concessione per giacimenti in mare perché si trovano del tutto o in parte dentro le 12 miglia dalla costa. La Rockhopper per il giacimento Ombrina di fronte all’Abruzzo, la Shell nel golfo di Taranto (addio a 2 miliardi di investimento), la Transunion e così via.
Perfino l’irlandese Petroceltic è stata indotta direttamente dal Governo, timoroso delle battaglie avviate dal presidente della Puglia Michele Emiliano, a rinunciare a un permesso di ricerca futura di giacimenti al largo del Gargano e delle isole Tremiti, in acque internazionali e non sottoposto ad alcun tabù.
Progetti in forse
Con le inchieste in corso si sono fermati in Basilicata, almeno in via temporanea, gli impianti del centro oli Eni a Viggiano e l’investimento da 1,6 miliardi della Total a Tempa Rossa con Shell e Mitsui. Ripartiranno, forse.
In dubbio anche altri grandi programmi. Ecco la piattaforma Vega dell’Edison al largo della costa ragusana, dove era previsto lo sfruttamento di un nuovo grande giacimento. Ed ecco il programma ibleo dell’Eni, nel Canale di Sicilia di fronte a Gela.
Il ministero dell’Ambiente nelle scorse settimane ha dato il via libera ambientale a due istallazioni da posare in Adriatico, la nuova piattaforma Bonaccia al largo di Ancona e la nuova piattaforma Tea al largo di Ravenna (Ministero dell’Ambiente 2016).
Queste due nuove realizzazioni vanno collegate ad altre piattaforme esistenti: ma fra qualche mese tutto potrebbe dissolversi in nulla.
Quanti giacimenti in Italia
In Italia ci sono 201 permessi per estrarre metano o petrolio dal sottosuolo. Nelle 201 concessioni sono in produzione 894 pozzi, di cui 695 estraggono metano e 199 producono petrolio. Dei pozzi, 532 sono sulla terraferma dal Piemonte alla Sicilia, e 362 in mare soprattutto in Adriatico e canale di Sicilia. Gli idrocarburi estratti sono convogliati in 78 centrali di raccolta e trattamento a gas e 14 centrali a olio. Nei mari italiani ci sono 133 istallazioni, di cui 106 vere piattaforme attive più altri impianti come teste pozzo sottomarine, piccole basi tecniche di raccordo o altre istallazioni (Banca dati del ministero dello Sviluppo economico 2016).
Grandi speranze
Dopo le scoperte di giacimenti enormi vicino a Cipro, in Israele e in Egitto, le compagnie pronosticano altri ritrovamenti giganti in Italia: nel mare a nord-ovest della Sardegna, nel canale di Sicilia verso la Tunisia, nel mare Ionio dal quale era stata fatta scappare la Shell.
Le stime di questi giacimenti ancora da scoprire fanno pensare a riserve per oltre 700 milioni di tonnellate fra petrolio e metano (Strategia energetica nazionale 2012).
A titolo di confronto, l’Italia consuma fra i 50 e i 60 milioni di tonnellate di petrolio l’anno. In via teorica, 700 milioni di tonnellate italiane significherebbe una dozzina d’anni di totale autonomia dell’Italia dalle importazioni, nemmeno una petroliera nei nostri mari, neanche un euro a califfati e oligarchi.
Più petroliere e gasdotti
Mentre i giacimenti italiani di stanno spegnendo nel 2015 gli italiani, a molti dei quali disturba usare le risorse nazionali, hanno bruciato senza ritegno quantità enormi di petrolio e di gas. Indicativo il caso del metano. Nel 2015 l’Italia ha usato 67,5 miliardi di metri cubi di gas, con una crescita inattesa del +9,1%. La domanda di petrolio è salita del 3,6% arrivando a 59,7 milioni di tonnellate (Ministero dello Sviluppo economico 2016).
Più consumi e meno produzione nazionale significa maggiori importazioni. Il traffico petrolifero nel Mediterraneo sta crescendo spinto dalla domanda di carburanti a basso prezzo e aumentano anche gli incidenti petroliferi all’estero, dove c’è meno cura agli impianti e all’ambiente, com’è accaduto due settimane fa in Tunisia dove un’avaria a una piattaforma ha sporcato il mare di fronte a Sfax.
Nel 2015 l’estrazione dai giacimenti nazionali di metano è scesa a 6,7 miliardi di metri cubi (-5,3%) e per soddisfare la domanda l’import è volato a 61,2 miliardi di metri cubi (+9,8%), soprattutto dalla Russia (+14,4%) e dalla Libia (+9,1%) (Ministero dello Sviluppo economico 2016).
Le ricadute e l’indotto
L’inchiesta di Potenza ha confermato anche l’ennesimo blocco al progetto Tempa Rossa di Taranto. Non è il grande impianto di primo trattamento a bocca dei pozzi in costruzione a Tempa Rossa in Basilicata. Invece è il punto d’approdo del petrolio lucano a fianco della raffineria Eni di Taranto. Se il giacimento in Basilicata è la botte, Taranto è il rubinetto. Nella città pugliese che vede prospettarsi il fantasma della miseria per la crisi dell’Ilva i 300 addetti e i 300 milioni di investimento della Total facevano immaginare qualche luce di speranza. Più movimentazione nel porto, più attività di indotto. In Italia le attività dell’indotto petrolifero contribuiscono con circa 20 miliardi di export alla bilancia dei pagamenti. Carpenterie, costruzioni, servizi navali ed elicotteristici, studi di ricerca geologica, informatica avanzatissima, laboratori chimici, progettazione: la punta di diamante dell’export complessivo dell’impiantistica infrastrutturale italiana, il cui valore si aggira intorno ai 120 miliardi di euro l’anno.
Il primato italiano
Un caso per tutti: pochi mesi fa l’Eni ha scoperto nel mare davanti al delta del Nilo un giacimento di metano, chiamato Zohr, con dimensioni così grandi da far cambiare il rating della società di San Donato Milanese e l’asse della geopolitica energetica mondiale. Ebbene, su quel giacimento erano passati gli scienziati delle compagnie petrolifere più grandi al mondo e nessuno ne aveva intuito l’esistenza finché non è stato studiato dal centro di calcolo dell’Università di Bologna.
In termini occupazionali il settore collegato al petrolio dà commesse tra Italia ed export per 100mila addetti (Assomineraria 2016).
Nel solo distretto di Ravenna, includendo le grandi multinazionali specializzate (Baker Hughes, Schlumberger, Halliburton, Saipem, HydroDrilling) e le numerose aziende contrattiste, lavorano 6mila persone (Filctem Cgil 2016).
Ma le chiusure e i licenziamenti, da mesi, si stanno inseguendo a cascata.