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Le promesse tradite nell'Egitto del generale al-Sisi

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Ombre sul regime

Le promesse tradite nell'Egitto del generale al-Sisi

Forse è vero: solo i militari possono garantire ordine e stabilità in questa fase storica dell'Egitto. Forse la democrazia è un frutto prematuro, anche se l'ipotesi sta piuttosto stretta a un Paese che fra alti e bassi è uno Stato da oltre 5mila anni. Garanti della trinità egiziana contemporanea – una lunga storia, l'Islam moderato e loro stesse – le forze armate sono indiscutibilmente l'epicentro della nazione. Ma da qui a governare un Paese così grande e complesso come fosse una caserma, ce ne corre.

Che cosa è l'Egitto oggi, con chi abbiamo a che fare in questa tragica vicenda di Giulio Regeni, in fondo così inspiegabile? Nel tentare una risposta non possiamo ignorare che una buona metà del Paese, se non ancora la maggioranza, sostiene Abdel Fattah al-Sisi. Pensa che lui e il suo stato di polizia siano la garanzia dell'ordine contro il caos, della rinascita nazionale contro la crisi economica. Pensare che gli egiziani abbiano ragione e che non possa esistere un'alternativa democratica, ha il sapore di quell'Orientalismo occidentale secondo il quale gli arabi si meritano solo dittatori. Tuttavia la storia intensa di questi ultimi cinque anni ha dimostrato che in Egitto manca la cultura dell'inclusione politica.

Manca certamente ai militari dell'ex generale al-Sisi. Ma non l'avevano nemmeno i Fratelli musulmani che per un anno hanno governato volutamente da soli: senza cercare di allargare il loro potere, nonostante l'evidenza della profondità della crisi egiziana e della loro immaturità a governarla. Ed esclusivi erano anche i giovani della rivolta di piazza Tahrir: coraggiosi ma arroganti, convinti di rappresentare una verità inoppugnabile che avrebbe abbattuto ogni potere. «Noi siamo la rivoluzione, non saremo mai un partito», dicevano i loro leader, ora quasi tutti in galera.

Cinque anni più tardi, anche l'Egitto di al-Sisi non sta andando bene, dopo molte promesse e qualche buona partenza. Arabia Saudita ed Emirati, gli ufficiali pagatori del golpe militare e della stabilizzazione finanziaria, hanno quasi chiuso i canali d'aiuto. Perché l'Egitto non è così solidale con la grande battaglia della causa sunnita contro quella sciita: non ha partecipato alla guerra nello Yemen e intrattiene eccellenti relazioni con la Russia. Ma soprattutto perché il petrolio continua a restare sotto i 40 dollari al barile. Più della geopolitica è il nuovo deficit di bilancio al 15% ad aver spinto i sauditi a rifiutarsi d'investire 8 miliardi di dollari in una serie di progetti egiziani. E gli Emirati a ritirare molte delle imprese che stavano costruendo case popolari per un milione di egiziani: uno dei simboli della ricostruzione di al-Sisi.

Il costo irrisorio del petrolio e quello piuttosto alto del pedaggio del canale di Suez, stanno spingendo un numero crescente di armatori a pensare sia più conveniente fare nove giorni di navigazione in più, doppiando il Capo di Buona Speranza: almeno 115 navi negli ultimi tre mesi dell'anno scorso. Anche l'allargamento del Canale doveva essere il progetto più rappresentativo della nuova era di al-Sisi. Diminuisce anche l'altra grande fonte di valuta: le rimesse degli egiziani all'estero. Erano di 22 miliardi nel 2014, sono state di 18 l'anno scorso.

Il calo del prezzo del petrolio colpisce i Paesi produttori e, in generale, offre qualche sollievo ai non produttori. Non all'Egitto che il petrolio non ce l'ha ma i costi della crisi sono di gran lunga superiori ai vantaggi. Pur non avendolo, l'Egitto importa e riesporta petrolio dopo averlo trasformato in prodotti petrolchimici: in un anno gli è costato il 33% in meno.

Il risultato di tutto questo è che il grande disegno di Abdel Fattah al-Sisi incomincia a non essere più così brillante anche fra i suoi sostenitori; che l'infallibilità della casta militare non è così certa; e che ora l'Egitto ha bisogno di noi più di prima. Gli investimenti italiani contano, e non sarebbe così facile rimpiazzarli se il caso Regeni portasse a una grave crisi fra i due Paesi.

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