Tra le ultime trovate per alimentare il dibattito sul referendum anti-trivelle spuntano perfino le cozze, intese come mitili. Greenpeace cita le risultanze che sarebbero emerse dalle indagini sulle attività petrolifere in Val d'Agri. Le intercettazioni avrebbero rivelato abusi ittici perfino nelle attività petrolifere in mare. Protagoniste, appunto, le cozze. Non solo quelle che trovano naturale ospitalità nella parte immersa delle piattaforme ma anche quelle piazzate proprio per monitorare gli inquinanti.
Gli uomini dell'Eni avrebbero o no sostituito con cozze “pulite” (questa l'accusa ) alcuni dei sacchetti di monitoraggio dispersi dalle mareggiate? L'associazione ambientalista ne fa un punto d'onore e la questione si è insinuata nelle cronache. Salvo scoprire che, un po' per tirar su quattro denari e un po' per ripulire i piloni, l'Eni ha un accordo con i pescatori perché rimuovano le cozze per immetterle nel circuito delle vendite. Con l'obbligo, va da sé, di attivare i controlli obbligatori delle Asl. Sembrerebbe il classico caso di una certificazione automatica e utile a tutti. Invece si dibatte e si litiga.
Può un referendum fondarsi su siffatte argomentazioni? Evidentemente sì, in un paese che nel ricorso ai referendum ne ha viste davvero tante. Certo, le inchieste ambientali sulle estrazioni in Basilicata sollevano comprensibili dubbi, ed è giusto così. Ma in questo caso rischiamo di battere i record della confusione, dei fraintendimenti, delle tesi strumentali, degli equivoci. Persino delle dichiarazioni pro referendum con effetto boomerang. Un esempio? Denuncia sempre Greenpeace, ma è anche la tesi del Wwf, che circa tre quarti delle piattaforme situate entro le 12 miglia marine delle coste italiane (quelle che in caso di vittoria del referendaria vedrebbero bloccato il rinnovo automatico delle concessioni fino ad esaurimento dei giacimenti) non sono operative, non eroganti o capaci di produrre così poco da non versare royalties allo Stato. Insomma si tratterebbe di impianti già esauriti. E gli altri in esercizio, in qualche caso da decenni, sarebbero sulla buona strada per non produrre più.
Se il problema è quello del mancato smontaggio di queste strutture con relativa bonifica delle aree, allora la denuncia è giusta. Nulla ha però a che fare con il merito e il metodo del quesito referendario. Se invece l'obiettivo non è questo la tesi dimostra tutt'altro: la vittoria o meno del referendum non avrebbe un'influenza significativa, in termini quantitativi e qualitativi, sulle estrazioni future. Tanto più che le nuove concessioni entro le 12 miglia sono comunque bloccate.
Altra tesi boomerang: si continua a favorire l'attività industriale e la relativa occupazione nelle attività petrolifere invece di dirottare impegni e relativi incentivi, fiscali e normativi, sulle energie rinnovabili. È chiaro che le due cose non interagiscono. Il nostro paese, per esplicita ammissione delle associazioni ambientaliste, molto ha fatto per le energie verdi, tanto da occupare una posizione di privilegio nel ranking mondiale. In compenso proprio sul fronte occupazionale l'allarme sulle conseguenze dell'eventuale successo referendario c'è eccome. Lo lanciano i nostri petrolieri riguardo ad un settore davvero critico nei nostri equilibri energetici: la raffinazione. Quel poco di attività di estrazione petrolifera in mare, comunque poca perché specie all' interno delle 12 miglia dalla costa il grosso riguarda l'assai meno inquinante gas metano, serve per stemperare almeno un po', insieme al petrolio terrestre estratto in Val d'Agri, i pochi impianti di raffinazione che ancora sopravvivono alla crisi da competitività industriale che sta spiazzando questo settore non solo in Italia ma tutt'Europa. La verità è che in Italia, rispetto alle nostre potenzialità, estraiamo poco petrolio e poco gas.
Già, le nostre potenzialità. Ulteriore affermazione boomerang: sulla base delle riserve nazionali di petrolio e gas accertate, cioè pienamente certificate, il fabbisogno nazionale sarebbe soddisfatto dagli impianti marini solo per sette settimane. E se si aggiungono quelle terrestri si arriverebbe a 13 mesi. Ma di ben altre entità sono le riserve stimate o stimabili.
Qualche possibile castroneria viene per la verità anche dalla parte avversa al referendum. Davvero curiosa la tesi dell'Anra, l'associazione dei risk manager, secondo cui con la vittoria del sì crescerebbero le minacce ambientali perché i nostri mari si affollerebbero di petroliere provenienti da siti di estrazione esteri. L'Anra ne approfitta comunque per puntare il dito su una palese discrasia evidenziata dal referendum: ci si affanna sulle estrazioni petrolifere mentre «manca totalmente la consapevolezza dei rischi idrogeologici che con cadenza annuale rendono sempre più fragile il territorio nazionale». Questa sì è una vera e drammatica emergenza sottovalutata.
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