I conti in tasca al referendum “sulle trivelle” non si possono fare sul caso della vittoria delle astensioni o dei “no” alla chiusura delle piattaforme in mare, poiché tutto rimarrebbe invariato come oggi, mentre è più facile farli sulla vittoria del “sì” alla fermata degli impianti petroliferi.
Se domani vinceranno i “sì”, la dipendenza energetica dell'Italia salirà dal 76 all'81%. Gli investimenti delle compagnie in Italia, che in pochi mesi sono passati da 16 a 6 miliardi di euro, si dissolverebbero quasi del tutto. Le stime elaborate dall'industria italiana dell'upstream energetico, stime di parte, dicono che per sostituire il metano e il petrolio delle piattaforme da chiudere a chilometro zero gli italiani dovranno importare energia per 750 milioni di euro in più l'anno per i prossimi 15 anni. In tutto, dovremo dare 11 miliardi di euro in più a emiri, oligarchi, califfati, dittatori e altri produttori di petrolio e metano.
Questi i conti in tasca agli italiani elaborati da chi contesta, anche con lo strumento spiacevole ma legale dell'astensione, questo referendum.
L'altra parte, quella “no triv”, diminuisce la portata economica dello sfruttamento dei giacimenti nazionali. Dicono: marginali e poco redditizi, la chiusura di questi giacimenti è un danno irrilevante alle nostre tasche, è un beneficio per l'ambiente ed è uno stimolo al governo verso una politica energetica mirata sulle fonti rinnovabili.
Gli analisti di Wood McKenzie hanno provato a fare qualche stima. Lo studio «Italy's offshore ban threatens development of 440 mmboe» ipotizza che una vittoria dei “no triv” produca danni sul miliardo di euro per l'Eni, sui 200 milioni per Petroceltic ed Edison, danni assortiti per le altre compagnie. E per lo Stato italiano, cioè per i cittadini? Gli analisti di Wood McKenzie stimano alla voce “Government” una perdita attorno a 1,4 miliardi di euro.
Sono stime. È impossibile contare in modo esatto quale valore muovano le conseguenze del referendum. Lo Stato, attraverso le royalty e i tributi, sfila dalle tasche delle compagnie e ridistribuisce in varie forme circa il 60% del valore del metano e del petrolio estratti in Italia, ma questo valore cambia di giorno in giorno con il variare delle quotazioni internazionali. Nel 2014, quando il petrolio aveva prezzi orgogliosi, le sole royalty avevano portato 401 milioni nelle casse delle Regioni e dei Comuni nei quali ci sono i giacimenti; l'anno scorso questo valore si è più che dimezzato.
Visto che il valore è incerto quanto i corsi del petrolio, si può calcolare l'effetto del referendum in termini di quantità, di impianti, di barili.
Il referendum è detto “sulle trivelle”, ma gli impianti di perforazione per raggiungere un giacimento non c'entrano più nulla. Le trivellazioni nelle acque territoriali sono già vietate e stravietate.
Domani invece sarà chiesto agli elettori: quando scadranno, potranno essere rinnovate le concessioni alle piattaforme che da anni estraggono metano o petrolio in mare entro le 12 miglia dalla costa?
Il quesito non riguarda le politiche sulle fonti rinnovabili d'energia, non riguarda i giacimenti sulla terraferma, non riguarda i giacimenti in alto mare oltre le 12 miglia dalla costa, cioè 22 chilometri al largo.
Se vincerà il sì, quando scadrà la concessione le 90 piattaforme in 44 concessioni in mare entro le 12 miglia dovranno essere spente, e 484 pozzi dovranno essere chiusi, anche se nel giacimento ci sarà ancora metano o petrolio.
Se vincerà il “no” o l'astensione, le 90 piattaforme potranno continuare a estrarre finché i giacimenti avranno contenuto.
Delle 44 concessioni con 90 piattaforme, 25 producono solamente metano, una soltanto greggio, 4 sia petrolio sia gas, 8 sono bloccate per legge (quelle davanti a Venezia per una moratoria) e 6 sono in stand-by industriale.
Le concessioni scadono a mano a mano con il passare del tempo.
Se vincerà il “sì”, quest'anno dal 18 aprile al 31 dicembre spariranno 12 concessioni, 44 piattaforme, 207 pozzi e rinunceremo a 562,1 milioni di metri cubi di metano.
Se vincerà il “sì”, l'anno prossimo dal 1° gennaio al 31 dicembre spariranno altre 8 piattaforme, 371 pozzi e dovremo importare altri 60,4 milioni di metri cubi di metano e 43.542 tonnellate di petrolio.
Quando scadrà l'ultima delle concessioni interessate dal referendum, nel 2034, rinunceremo a produrci in casa 1,93 miliardi di metri cubi di metano e 542.880 tonnellate di petrolio.
Le 500mila tonnellate annue di petrolio da importare in più significa che ogni anno volteggeranno davanti alle nostre coste circa 5 superpetroliere di taglia Aframax o Suezmax.
In Italia oggi si estraggono circa 7 miliardi di metri cubi di gas, cioè l' 11,5% dei consumi, e circa 5,5 milioni di tonnellate di petrolio, il 9,6% del fabbisogno. Nel mare italiano sono presenti 69 concessioni che in totale producono 4,5 miliardi di metri cubi di gas e 750mila tonnellate di greggio.
Se domani vinceranno i “sì”, ci sono vantaggi ambientali.
Non contano le 5 petroliere aggiuntive nei nostri mari. Non contano la crescita delle emissioni e dell'effetto serra per la crescita dell'import, non le migliaia di chilometri di condotte da Russia e Algeria che trafilano nell'aria grandi quantità di metano che sul clima dà mazzate peggiori dell'anidride carbonica. Queste piattaforme rappresentano un rischio per i nostri mari. Alcuni incidenti avvenuti nel mondo ne sono testimonianza.
Con la vittoria del “sì” il rischio prodotto da queste istallazioni sarà trasferito lontano dai nostri occhi.
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