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La scommessa vinta di Renzi

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Politica

La scommessa vinta di Renzi

L'affluenza al 31,2%, tenendo conto anche del voto all’estero che ha influito sul dato finale, è senz'altro una sconfitta dei comitati per il sì. E indirettamente, anche se nella conferenza stampa il premier ha voluto evitare i toni trionfalistici, intestando la vittoria ai lavoratori delle piattaforme, un successo del premier. Dando come indicazione il non voto - e per l'astensione si è schierato anche il Pd, tra le proteste della minoranza interna - Renzi si è senz'altro preso un rischio. Un rischio che alla vigilia del voto appariva elevato e destava più di una preoccupazione a Palazzo Chigi, dal momento che i sondaggisti, con lievi differenza tra gli istituti, davano la possibilità di raggiungere il quorum del 50% più uno necessario per validare il referendum molto probabile. Come si dice con termine tecnico “equo-probabile”.

Due i fattori da tenere presenti nella valutazione di questo voto referendario: la spinta politica anti-Renzi con la quale gli oppositori politici del premier, in primis il Movimento 5 Stelle e la sinistra extra Pd ma anche i leader della minoranza interna Gianni Cuperlo e Roberto Speranza, hanno voluto caricare il quesito; e l'irrilevanza del quesito stesso. L'irrilevanza ha evidentemente tenuto a casa molti italiani, a differenza di altri referendum storici come quelli sul divorzio, l'aborto, la legge elettorale e come lo stesso referendum sul nucleare di materia affine. La motivazione principale che sembra abbia spinto 15,8 milioni persone a votare sembra dunque essere stata quella anti-Renzi. E la “spallata” non c'è stata, evidentemente.

Gli analisti vicini al premier si spingono oltre: se il dato dei 13,3 milioni di cittadini che hanno più esplicitamente detto “no” a Renzi votando sì al referendum sulle trivelle si proietta ad ottobre, quando presumibilmente andranno alle urne per esprimersi sulla riforma costituzionale 30 milioni di elettori - è il loro ragionamento o la loro speranza - la “spallata” non dovrebbe esserci neanche allora. E si sa che il premier ha puntato tutto sul referendum costituzionale, legando il proseguimento della sua esperienza politica al “sì” degli italiani alla riforma che abolisce il Senato elettivo e riscrive il Titolo V della Carta mettendo ordine nelle competenze delle Regioni e rafforzando il ruolo dello Stato. Mancano sei mesi, certo, e molto conteranno i dati economici. Ma per ora il premier può dirsi di mantenere più di quanto indichino i sondaggi il contatto con la “pancia” del Paese.

Restano le valutazioni sullo strumento referendario, che dopo il successo dei primordi ha via via perso agli occhi degli italiani la sua valenza democratica, soprattutto se ad essere sottoposti a valutazione sono quesiti secondari che non sono percepiti dirimenti per la vita dei cittadini e per il futuro del Paese. Non sarà un caso, come ha notato Roberto D'Alimonte sulle colonne del Sole 24 Ore, che negli ultimi 20 anni siano falliti 6 referendum su 7.

La riforma costituzionale che sarà sottoposta al voto dei cittadini a ottobre cerca di mettere ordine nella questione referendaria. Restano le regole attuali, ma se la raccolta delle firme supera quota 800mila viene introdotto un nuovo quorum: la metà più uno dei votanti alle ultime elezioni politiche. Da una parte le 800mila firme danno maggiore legittimità popolare alla richiesta referendaria, ma resta il problema dell’uso dei referendum come arma di lotta politica. Con tutte le conseguenze sulla programmazione anche economica del governo che questo può comportare.

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