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Perché la riforma è un passo avanti per il sistema italiano

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Perché la riforma è un passo avanti per il sistema italiano

  • –Roberto D'Alimonte

Non esistono riforme perfette. Esiste invece lo status quo e esistono riforme che lo modificano in meglio o in peggio. La domanda da cui partire per un giudizio equilibrato e realistico sulla riforma costituzionale recentemente approvata è dunque questa: migliora o peggiora la situazione esistente? La tendenza di molti invece è quella di criticare la riforma usando il criterio dei modelli ideali. Ma così facendo si fanno due errori. Da una parte si sottovalutano i limiti posti dal contesto politico in cui la riforma deve essere approvata. Dall’altro si tende a pesarne in maggior misura gli aspetti negativi rispetto a quelli positivi. È quello che fa il documento dei 50 costituzionalisti che in pratica apre la campagna sul referendum confermativo.

L’attuale riforma non è la soluzione ideale al problema dell’equilibrio tra governabilità e rappresentatività in questa fase della nostra storia. Ma, combinata con il nuovo sistema elettorale, è una soluzione realistica che risponde ad un modello coerente che tende da una parte a dare più potere agli elettori e dall’altra a responsabilizzare il governo dandogli i mezzi per attuare il programma con cui è stato eletto e di cui dovrà rispondere. Il modello di governo resta parlamentare, ma il governo non sarà scelto dai partiti dopo il voto ma dai cittadini con il voto. È stato in fondo così a partire dal 1993, quando fu introdotta la prima legge elettorale maggioritaria. Ma era un modello imperfetto, con due camere elette con sistemi elettorali diversi e corpi elettorali diversi. Una grave anomalia. Adesso ci sarà una sola camera che darà e revocherà la fiducia.

Non solo il processo di formazione dei governi sarà semplificato ma a questo corrisponderà anche la semplificazione del processo legislativo. È vero che la riforma prevede procedure diverse di approvazione delle leggi, ma il fatto importante è che sarà la Camera dei deputati ad avere l’ultima parola nella stragrande maggioranza dei casi. E questa sarà una Camera in cui il governo finalmente avrà la possibilità di vedere discussi e votati i suoi provvedimenti a data certa. È un altro degli elementi di quel modello di responsabilizzazione dell’azione di governo cui si ispirano riforma elettorale e riforma costituzionale. E tutto ciò senza modificare i poteri del presidente del Consiglio, come invece altri progetti di riforma in passato avevano suggerito. Nemmeno quelli di nominare e revocare i ministri e tantomeno quello di sciogliere il Parlamento, come avviene in altri paesi democratici. Da questo punto di vista questa è una riforma timida.

Da un altro punto di vista invece è una riforma ardita. A differenza di quanto si dice e si scrive, il ruolo del Presidente della Repubblica uscirà rafforzato e non indebolito da questa riforma. Sarà un presidente ancor più indipendente. Non solo i suoi poteri non vengono modificati di una virgola, ma non potrà più essere eletto da una maggioranza assoluta, come invece prevede l’attuale costituzione. Ci vorranno i tre quinti dei votanti, come per gli attuali giudici della Consulta. I membri delle due camere, cioè i grandi elettori, saranno in totale 730 (630 deputati e 100 senatori). I tre quinti fanno 438 voti, se tutti votano. Questo significa consegnare la nomina del presidente della Repubblica alle opposizioni. Bastano due conti per confutare il timore, o meglio l’errore, di chi pensa che la maggioranza “fabbricata” dall’Italicum, combinata con le nuove regole costituzionali, possa consegnare un potere assoluto o una “influenza dominante” a chi vince. Chi vincerà le prossime elezioni avrà 340 seggi, cui aggiungere – ipotizziamo - 6 seggi della circoscrizione estero. Per arrivare ai 438 voti necessari per eleggere il futuro presidente della Repubblica ne mancano 92. È realistico immaginare che nel futuro senato il partito di governo possa contare su 92 senatori su 100? Saranno dunque anche le opposizioni a decidere chi sarà il futuro capo dello Stato e sarà lui a scegliere cinque membri della Corte costituzionale.

E che dire del rafforzamento degli strumenti di democrazia diretta? Il recente referendum sulle trivelle è stata l’ennesima conferma che il meccanismo previsto dalla attuale Costituzione non funziona più. Il quorum del 50% degli elettori lo ha reso obsoleto. La nuova Costituzione prevede un altro tipo di referendum abrogativo basato sullo scambio più firme meno elettori. Si alza da 500mila a 800mila il requisito delle firme per chiedere un referendum ma si abbassa dal 50% degli elettori al 50% dei votanti alle ultime elezioni politiche il requisito per la sua validità. Domenica scorsa sarebbe bastato il 37% degli elettori. E non è tutto. Perché accanto al nuovo referendum abrogativo la riforma prevede anche l’introduzione del referendum propositivo, così come prevede una nuova regolamentazione delle leggi di iniziativa popolare che fino ad oggi non hanno avuto alcun effetto. Anche in questo caso l’innovazione si basa su uno scambio: più firme per la loro introduzione in cambio dell’obbligo per il Parlamento di prendere in esame la richiesta.

Le innovazioni contenute nella riforma costituzionale non finiscono qui. Un capitolo importante e delicato è certamente quello della modifica dei rapporti Stato-regioni. È il punto su cui il documento dei costituzionalisti si sofferma di più insieme all’argomento collegato della struttura del nuovo Senato. Ci sarà tempo e modo di tornare su questi temi. Il dibattito è solo agli inizi. Ma basta questo elenco - seppure incompleto - per dubitare che alla fine dei conti lo status quo sia meglio della riforma votata dal Parlamento e che sarà sottoposta a Ottobre al giudizio degli elettori.

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