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Riforma Madia, la mappa delle novità

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Riforma Madia, la mappa delle novità

  • –Gianni Trovati

Addio al silenzio-rifiuto sulla trasparenza, sanzioni differenziate contro l’assenteismo, più concorrenza nelle società partecipate, più apertura agli operatori per il Codice dell’amministrazione digitale.

Testi sotto esame

La riforma della Pubblica amministrazione targata Marianna Madia sta per passare dalla fase del cantiere a quella dell’applicazione pratica, dopo che il primo dei decreti attuativi ha superato mercoledì scorso il passaggio alla Camera e al Senato ed è pronto per l’approvazione definitiva in uno dei prossimi Consigli dei ministri. Il decreto, che rappresenta uno dei manifesti della riforma e punta a introdurre anche da noi la trasparenza del freedom of Information Act di stampo anglosassone, ritorna però a Palazzo Chigi parecchio cambiato rispetto a quando ne era uscito tre mesi fa, e la stessa evoluzione potrebbe caratterizzare molti degli altri dieci provvedimenti che traducono in pratica la prima parte della riforma. I cambiamenti, va detto subito, sono in larga parte migliorativi e nascono da una serie di esami che tra Consiglio di Stato, tavoli di confronto con gli enti territoriali e Parlamento sono stati tutt’altro che formali. Tutte queste modifiche, alcune già in via di accoglimento e altre in discussione, segnalano però che i testi usciti dagli uffici dei ministeri si sono rivelati zoppicanti in più punti.

Trasparenza difficile

Proprio il decreto sulla trasparenza, etichettato con l’acronimo Foia per rivendicarne l’ispirazione ai modelli internazionali più avanzati in fatto di Pa come «casa di vetro», riassume perfettamente i termini del problema. Per ottenere i dati anche senza essere direttamente coinvolti nel procedimento come richiede il vecchio diritto d’accesso, in base al testo approvato in prima lettura dal governo i cittadini avrebbero dovuto indicare con precisione l’elenco dei documenti in questione e pagare all’ufficio pubblico il costo sostenuto per produrli. L’ufficio, poi, avrebbe potuto scegliere semplicemente di non rispondere, senza spiegare nemmeno il perché, e a quel punto l’interessato avrebbe potuto solo rivolgersi al Tar, rimettendo mano al portafoglio. Contro questo meccanismo inglese nel nome ma italianissimo nei fatti si sono subito ribellati gli esperti del settore e i tifosi della trasparenza reale, in particolare le 30 associazioni riunite nel cartello del Foia4Italy, ma anche l’Autorità anticorruzione, i giudici amministrativi e le commissioni parlamentari hanno suonato la stessa musica. L’elenco dei correttivi è lungo, punta a cancellare il silenzio-rifiuto, tagliare i costi a carico dei cittadini e ridurre le eccezioni agli obblighi di trasparenza, e la stessa ministra della Pa e della semplificazione, Marianna Madia, ha chiarito subito di essere d’accordo e di proporre le novità al Consiglio dei ministri.

I rischi dell’anti-assenteismo

Per il risultato finale non ci vorrà molto, mentre si annuncia meno liscia la navigazione di un altro provvedimento “da titolo”, quello che ha messo nel mirino gli assenteisti della pubblica amministrazione. Giusto giovedì scorso, giorno dell’ennesimo caso di certificati medici di gruppo esploso a Roma (questa volta ha riguardato però una partecipata comunale, l’azienda dei trasporti), la ministra Madia l’ha rilanciato, spiegando che con il decreto in vigore per le “assenze di gruppo” non ci sarà più spazio. Anche su questo testo, però, le obiezioni piovute non sono poche e si rincorrono tra il Consiglio di Stato e i dossier preparati dai tecnici di Camera e Senato per i pareri parlamentari. In particolare, non è piaciuta l’idea di affibbiare la stessa sanzione, il licenziamento, sia al dipendente assenteista sia al dirigente che non lo controlla, con un evidente problema di proporzioni fra il comportamento e la contromisura, e nemmeno quella di calcolare il danno all’immagine, che in caso di condanna l’assenteista deve risarcire, anche sulla base della «rilevanza mediatica» del caso. Più di un’incognita è legata però anche ai tempi stretti imposti per contestare le assenze, anche perché la mancata prontezza degli uffici potrebbe dare carte insperate al dipendente infedele. Forse quello dei tempi è un problema genetico del provvedimento, nato per rispondere a stretto giro al caso Sanremo con una fretta che forse non ha aiutato la precisione.

Il nodo del personale

Sempre in fatto di calendario, sul taglia-tempi alle autorizzazioni per le imprese e le infrastrutture strategiche, invece, a rivendicare le prime “vittorie” possono essere le Regioni, ma la questione è più complessa rispetto a una semplice replica dello scontro appena andato in scena con il referendum. Il Consiglio di Stato, è vero, ha di fatto spiegato che anche per i progetti «di interesse nazionale» serve l’intesa con le Regioni, altrimenti si va contro la Costituzione (un po’ su tutte le materie, almeno finché resta in vigore il Titolo V di oggi). L’obiettivo esplicito dei giudici è quello di garantire davvero il taglio dei tempi evocato dal decreto, che paradossalmente potrebbe invece complicare la situazione introducendo meccanismi che non funzionano. Su questo piano pratico si muove l’altra incognita: il decreto prevede di dimezzare i tempi delle autorizzazioni e commissariare gli enti che ritardano, ma chiede di fatto al personale di gestire questi commissariamenti nei ritagli di tempo, senza incentivi economici né alleggerimenti dei compiti ordinari. Così, spiegano in sintesi i giudici amministrativi, non può funzionare.
Il rischio, altrimenti, è quello di innescare la stessa dinamica che si è attivata per la Conferenza dei servizi, dal 1990 a oggi riformata praticamente da tutti i governi senza però ottenere un risultato definitivo, visto che anche la delega Madia interviene sul punto, così come accade per la Scia. In entrambi i casi, le chance di successo passano non solo dalla correttezza del testo, ma dal suo “accompagnamento” con la formazione del personale e un monitoraggio strutturale sui problemi operativi che emergeranno. L’alternativa è tornare fra pochi anni a sedersi attorno a un tavolo per scrivere un’altra riforma.

Riforme continue

Proprio questo, infatti, è il rischio principale che si corre quando si scrive una regola senza valutare fino in fondo i suoi risvolti pratici. Per il nuovo Codice dell’amministrazione digitale, altro decreto attuativo della riforma Madia che tocca le corde dell’innovazione, le modifiche rispetto al testo passato sul tavolo del Consiglio dei ministri sono praticamente obbligate, perché in questo caso il Consiglio di Stato ha di fatto fermato la macchina del provvedimento in attesa di novità dal governo. Il punto più critico è quello che impone alle società di gestione delle Pec e delle “identità digitali” requisiti di capitale pari a quelli imposti alle banche di credito cooperativo (minimo 5 milioni di euro), con un passaggio non troppo lineare già giudicato “sproporzionato” dal Tar del Lazio.

Sul punto, il ripensamento chiesto dai giudici serve a evitare l’avvio di un contenzioso che rischia di bloccare l’impianto del nuovo Codice, da correggere anche nella parte in cui prevede la validità automatica dei documenti con firma elettronica senza individuare gli strumenti in grado di dare le garanzie necessarie.

gianni.trovati@ilsole24ore.com

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