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Per ora conti al riparo

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l’analisi

Per ora conti al riparo

  • –di Dino Pesole

Non sarà un decimale di crescita (in meno) e di deficit (in più) a modificare la traiettoria della finanza pubblica e a pregiudicare la partita con la flessibilità.

Le stime diffuse ieri dalla Commissione europea, da questo punto di vista, non ostacolano il via libera ai conti italiani atteso per il prossimo 18 maggio. Il confronto verte se mai sull’altro fondamentale parametro, il debito, che secondo il governo comincerà quest’anno a scendere dopo oltre sette anni di aumento ininterrotto, attestandosi al 132,4% del Pil, mentre per la Commissione Ue la discesa non vi sarà. Al massimo, ci si può attendere che il valore si stabilizzi sul risultato del 2015, vale a dire il 132,7%, e la discesa potrà cominciare a manifestarsi solo nel 2017, quando il debito è previsto attestarsi al 131,8 per cento. Anche in questo caso, pochi decimali (lo 0,3%) separano le due stime. I toni non paiono ultimativi. Alla fine, anche sulla base di un aggiornamento del deflatore del Pil, potranno esservi ulteriori revisioni, per non pregiudicare fin d’ora uno degli impegni più rilevanti assunti dal governo e certificati dai documenti programmatici approvati lo scorso 8 aprile. Nel Def si sottolinea in proposito che «l’inversione della dinamica del debito è un obiettivo strategico del Governo». Segnale importante, da inviare ai mercati e ai partner europei, in presenza di una duration (la vita media ponderata dei titoli di Stato) che nel 2015 si è attestata a 6,52 anni, mentre il costo medio annuo dell’indebitamento ha toccato il minimo storico pari allo 0,70%, rispetto all’1,35% del 2014.

Il debito preoccupa, conferma Marco Buti, direttore della Dg Affari economici e finanziari della Commissione. Il che fa ritenere che il via libera ai conti italiani, con annessa la flessibilità prevista per il 2016 (lo 0,75%), sarà accompagnato dalla constatazione della presenza di squilibri macroeconomici eccessivi e dal rituale richiamo a rispettare il timing di riduzione del debito. Nulla di più, anche alla luce del reiterato impegno a realizzare incassi da privatizzazioni per lo 0,5 per cento. Ad adiuvandum, ad ostacolare la discesa del debito pesa la persistente bassa inflazione, ma da questo punto di vista siamo tristemente in buona compagnia, considerato che quest’anno secondo la Commissione si toccherà nell’intera Eurozona quota 0,2 per cento.

Nel raffronto tra il 2015 e il 2016, si registra peraltro un peggioramento dello 0,7% nel saldo strutturale (da -1,0% a -1,7%), e dello 0,5% del saldo depurato dagli effetti del ciclo economico (da -1,1% a -1,6%). Una fotografia a regole costanti, scattata in base agli attuali criteri di misurazione biennali dell’output gap. Se si riuscirà entro l’anno ad aggiornare il parametro del deficit strutturale (sostituito dall’evoluzione della spesa pubblica proiettata su un quadriennio), e si modificheranno i criteri di calcolo della crescita potenziale, quello che ora si configura come uno “scostamento grave” dalle regole europee potrebbe cedere il passo a una valutazione meno rigida e meccanica dello stato di salute reale dei conti pubblici. Prevarrà su tutto una valutazione in gran parte politica.

Non sembra proprio questa la stagione per brandire l’arma del rigore a senso unico. Ha ragione il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, quando ricorda che la via maestra per abbattere il debito è la crescita. Dunque occorre incoraggiare quei paesi che stanno provando a far fronte all’indebolimento del ciclo internazionale con politiche orientate al sostegno della domanda interna. Che poi il debito vada ridotto è precondizione assoluta, perché proprio questa continua a essere la principale causa di vulnerabilità dell’economia italiana, come ha mostrato con assoluta evidenza la «crisi dello spread» che abbiamo vissuto tra il 2011 e il 2012.

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