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La lunga marcia della flessibilità partita nel 2014

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Attualità

La lunga marcia della flessibilità partita nel 2014

Fu allora che Bruxelles, sulla base di dati congiunturali che evidenziavano per l’Italia una evidente contrazione del Pil (-0,3%), e dunque una fase recessiva prolungata (-1,7% nel 2013 e -2,8% nel 2012), concedeva un primo “sconto” sulla riduzione del deficit strutturale a valere per il 2015: 0,25% e non più lo 0,5% previsto dalle regole europee. Era la situazione che precedeva l’approvazione da parte della Commissione Ue della «Comunicazione sulla flessibilità», resa nota il 13 gennaio del 2015. E dunque l’unica strada era quella di appellarsi alle «circostanze eccezionali», tra queste appunto una prolungata fase recessiva contemplata dall’impianto originario del Patto di stabilità. Bruxelles ne aveva preso atto fin dall’autunno, nel prevedere un «output gap» per l’Italia pari a -3,4 per cento. Apertura che coincideva con l’insediamento della nuova Commissione presieduta da Jean Claude Juncker. Di fatto, con la Comunicazione del gennaio 2015 si puntava a offrire un’interpretazione “estensiva” delle regole europee, in direzione del «miglior utilizzo» del Patto di stabilità, secondo le intese politiche raggiunte nel Consiglio europeo del 30 giugno 2014.

Con la decisione che verrà assunta oggi dal collegio dei commissari Ue, all’Italia verrà concesso il massimo della flessibilità consentita dai più recenti orientamenti della Commissione per i paesi che possono fruire dei margini previsti dal «braccio preventivo» del Psc (che sono in sostanza fuori dalla procedura per disavanzo eccessivo): in sostanza lo 0,5% del Pil per quel che riguarda le riforme (allo 0,4% già attribuito un anno fa va ad aggiungersi un ulteriore 0,1%), cui va ad aggiungersi lo 0,25% della clausola per gli investimenti. L’ulteriore 0,1%, che porta il totale della flessibilità 2016 a oltre 13,5 miliardi, non è previsto da clausole specifiche e dunque – riferendosi alle spese sostenute per far fronte all’emergenza migranti/sicurezza già incorporate nei saldi di bilancio della legge di stabilità – rinvia anch’esso di fatto alle «circostanze eccezionali» previste dal Patto di stabilità. Tra queste, appunto, eventi «inconsueti non soggetti al controllo dei singoli paesi».

Riforme strutturali e investimenti: queste dunque le due clausole principali che aprono la strada alla flessibilità Ue per l’anno in corso. Nel primo caso, Bruxelles evidenzia il rispetto dei requisiti previsti dalla Comunicazione del gennaio 2016: riforme “importanti”, con effetti positivi a lungo termine, e in particolare viene indicata la riforma del mercato del lavoro. Si tratta - osservano il vice presidente Valdis Dombrovskis e il commissario agli Affari economici, Pierre Moscovici - di un «ambizioso programma di riforme strutturali, che può offrire un rilevante contributo al potenziale di crescita dell’economia».

Per quel che riguarda gli investimenti, il cammino non è altrettanto agevole, poiché la flessibilità viene concessa solo a fronte di progetti definiti e validati secondo il meccanismo del cofinanziamento Ue. Come dire che gli investimenti vanno realizzati, e dunque non si tratta di uno sconto «a prescindere», anche perché sulla carta è previsto che il tasso di crescita potenziale del Pil si attesti in un output gap maggiore dell’1,5%, e che la spesa per investimento riguardi progetti in grado di produrre effetti positivi di lungo periodo sul bilancio.

Per quel che riguarda il 2017, formalmente non è prevista l’attivazione di alcuna clausola. Lo scostamento dall’obiettivo di deficit programmato in partenza (1,1%), il nuovo tendenziale (1,4%) e l’obiettivo programmatico (1,8%) sarà concesso a fronte del reiterato impegno (che il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan conferma nella lettera inviata ieri a Bruxelles) a proseguire «nello sforzo di risanamento dei conti pubblici», a partire dalla riduzione del debito. Per il 2017 sarà comunque richiesto uno «sforzo di bilancio» tra lo 0,15% e lo 0,2% del Pil, così da evitare una «significativa deviazione» dagli obiettivi concordati e consentire di attivare la flessibilità su riforme e investimenti. Il tutto alla luce del rinnovato impegno a considerare la riduzione del debito «uno degli obiettivi chiave» della strategia di politica economica.

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