
Il boom, in questo caso, arrivò nell’immediato dopoguerra, senza aspettare la metà degli anni Cinquanta come avvenne invece per l’economia. Come attesta uno studio nuovo di zecca dell’americano Carl Ipsen (Fumo: Italy's Love Affair With the Cigarette, Stanford University Press 2016), direttore del Collins Living - Learning Center, fu dal 1945 che l’Italia appena uscita dall’incubo del secondo conflitto mondiale tornò a riassaporare avidamente il fumo. Addio sigarette razionate e di pessima qualità: il progressivo ritorno alla normalità, con il sogno del benessere nel cassetto, si tradusse nello status symbol maschile più a buon mercato dell’epoca: la “bionda”. Così, come attestano i dati Istat meticolosamente raccolti dallo studioso americano, dal 1950 alla metà degli anni Ottanta la curva del consumo di tabacco da parte degli italiani si impennò con una diagonale quasi perfetta, dalla parte in basso a sinistra dei grafici a quella in alto a destra.
Il boom del tabacco
Il consumo pro capite degli italiani dai 15 anni in su balzò progressivamente dal chilo di tabacco del 1950 (pari a circa mille sigarette) ai circa 2,3 chili della metà degli anni Ottanta. Attenzione, perché l’Istituto di statistica ha registrato solo il consumo di tabacco legale: difficile ovviamente trovare dati attendibili sulle sigarette di contrabbando, diffusissime fino ai giorni nostri. Ma in un sondaggio del 1949, alla domanda «quante sigarette fumi ogni giorno», l’italiano medio indicò un numero doppio rispetto a quello dei consumi legali registrati dall’Istat. Probabilmente le risposte non erano del tutto veritiere (nel 1949 fumare molte sigarette era lo status symbol più a portata di mano per gli uomini) ma danno un’idea approssimativa del fenomeno contrabbando. Come disse tra il serio e il faceto, nel 1951, il ministro delle Finanze Ezio Vanoni, «se voglio misurare la ricchezza di una regione italiana guardo in primo luogo alle statistiche sul tabacco». Guardo, insomma, da dove arrivano i consumi di fumo: se dalle élite maschili si estendono alla classe media e operaia, magari anche femminile, ho la controprova di una crescita almeno minima del benessere.
L’altra metà della sigaretta
E le donne? Durante gli anni Trenta e Quaranta, il rapporto tra gentil sesso e sigarette era davvero occasionale: per un evidente retaggio socioculturale, solo il 2-3% delle donne fumava, contro almeno il 50% degli uomini. E anche nel dopoguerra il boom del tabacco ha caratterizzato solo il sesso forte, con una percentuale di fumatori che nel 1949 aveva già toccato quota 70%. Poi però la “forbice” tra i dei due sessi ha iniziato piano piano a chiudersi: la percentuale di fumatrici, ancora inferiore al 10% nel 1960, durante la rivoluzione femminista degli anni Settanta è progressivamente cresciuta fino a toccare quota 30% a metà degli anni Ottanta.
La svolta di metà anni Ottanta
Dalla metà degli anni Ottanta qualcosa è cambiato nel rapporto tra italiani e sigarette. Per la prima volta dal 1945, il consumo di sigarette ha iniziato a flettere per poi stabilizzarsi in quello che - sui mercati finanziari - si definirebbe un “trading range”. Che cosa è accaduto? Probabilmente da allora è aumentata la consapevolezza di un macabro dato statistico che ha accompagnato passo passo il folle amore per le sigarette: il numero di decessi dovuti a cancro ai polmoni. Una mortalità aumentata rapidamente dal 1960 al 1980, anche per il cosidetto “fumo indiretto” respirato nei locali pubblici, e poi stabilizzatasi per successivamente declinare, dall’inizio del terzo millennio. La svolta fondamentale, spiega Carl Ipsen, è arrivata però con la legge Sirchia, in vigore dal gennaio 2005, che vietava il fumo negli spazi pubblici e nei posti di lavoro. Un salutista ma malinconico addio, che ha suggellato la fine del grande amore fra italiani e sigarette.
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