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Un nuovo contratto Ue per il Patto di stabilità

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L'Analisi|l’analisi

Un nuovo contratto Ue per il Patto di stabilità

Sono due le variabili, una negativa e l’altra positiva, che forniscono alla Commissione Ue l’alibi quasi perfetto per giustificare il giudizio morbido sui programmi nazionali di riforme e di stabilità dell’area euro e dintorni Ue.

La prima passa per l’invitto rischio di deflazione che continua a pendere sull’Europa, nonostante i pervicaci sforzi della Bce per contrastarlo: in aprile, caduta dei prezzi dello 0,2% in ben 12 paesi sui 19 dell’euro, ha segnalato ieri Eurostat. Idem per l’Unione (17 su 28).

La seconda è figlia della success-story che ha visto crollare il deficit aggregato dell’eurozona dal 6,1% del 2010 all’1,9 di quest’anno e all’1,6 il prossimo. Il che, dice Bruxelles, in un momento in cui l’economia mondiale rallenta e si contorna di incertezze, offre preziosi margini per rafforzare la modesta ripresa europea senza rinnegare una responsabile politica di bilancio né l’impegno a rendere più moderna e competitiva l’economia con riforme efficaci.

Dunque ieri non sono piovute sanzioni su Spagna e Portogallo, che invece hanno incassato un anno in più per mettersi in regola con il loro deficit eccessivo. Come era già accaduto l’anno scorso con la Francia, che ne aveva avuti ben due di anni di grazia (scadranno nel 2017).

Dunque Italia, Belgio e Finlandia non si sono viste aprire procedure sul debito, nonostante non in linea con i parametri fissati né in fase discendente, alla luce di altri fattori rilevanti quali bassa crescita e deflazione.

Per l’Italia però il giudizio finale arriverà solo in novembre per verificarne il rispetto degli impegni presi per il 2017, tra l’altro in cambio di una flessibilità da 14 miliardi nel 2016 ottenuta grazie a riforme, investimenti e spese extra per sicurezza e rifugiati. Se sarà garantito il calo del deficit nominale dal 2,3 all’1,8% e se non ci saranno deviazioni significative dalla strada verso il pareggio strutturale nel 2019, il via libera diventerà definitivo. E perfino la richiesta correzione strutturale di bilancio dello 0,6%, pari a circa 10 miliardi, potrebbe in realtà diventare quasi simbolica (0,1%), se le regole del patto saranno rispettate «in senso lato».

Anche per Germania e Olanda il richiamo all’ordine c’è ma poco perentorio sugli squilibri macroeconomici. L’enorme e persistente surplus corrente tedesco (8,8% del Pil) riflette eccesso di risparmio e compressione degli investimenti pubblici e privati e penalizza la crescita interna come quella dell’eurozona. Però Bruxelles si limita a invitare Berlino a carburare gli investimenti quest’anno e il prossimo.

«Finirà male se, invece di cambiare le regole del patto di stabilità, si continuerà a interpretarle a soggetto», avverte preoccupato uno degli attori della partita spericolata in corso dietro le quinte. Il gioco delle tre carte con le pandette dell’euro è tanto più pericoloso in un’Europa che non solo è divorata dalla sfiducia reciproca tra i suoi paesi membri ma non riesce nemmeno ad accordarsi su una narrativa comune della crisi con cui convive da 7 anni: per il Sud nasce da un policy mix sbagliato, da troppo rigore nordico. Per il Nord da troppi debiti, indolenza e sostanziale disonestà del Sud.

Eppure, paradossalmente, oggi quel gioco è diventato necessario: non per fare lassismo keynesiano sottobanco ma per esercitare l’arte del realismo, indispensabile per tenere insieme un’unione monetaria culturalmente, oltre che economicamente e finanziariamente, sempre più divaricata. La Commissione europea non è la Bce, che è armata di indipendenza statutaria per tener testa ai Governi.

Se Bruxelles armeggia con il patto per farne quasi una finzione, non è per romperne la disciplina ma per tenerlo in vita. Non lo farebbe però senza l’avallo più o meno implicito dei Governi che più contano. Come del resto Francoforte.

Non potrà mai ammetterlo ufficialmente per non provocare la propria opinione pubblica ma anche la Germania di Angela Merkel in questo momento ha bisogno di alleggerire la disciplina per fare più crescita per tutti. Ed evitare la destabilizzazione politica incontrollata dell’area sotto gli assalti dei partiti euroscettici e nazionalisti.

È stato proprio l’irrisolto problema della narrativa contrapposta della crisi, quella che alimenta consenso popolare a Nord quando si bacchetta forte il Sud ma lo distrugge con un approccio più ragionevole, e viceversa, ad aver condotto il patto nel vicolo cieco in cui si trova, costringendolo a vivere di ambiguità e sotterfugi regolatori.

Quanto potrà durare questo insensato tiro alla fune delle regole che dovunque, per ragioni diverse, distrugge consenso e fiducia? C’è un solo modo per impedire che prima o poi la fune si spezzi: utilizzare l’attuale allentamento del patto perché chi deve fare le riforme e ridurre il debito lo faccia in fretta e altrettanto chi invece deve investire di più per crescere e far crescere di più. Forse su queste basi e con la buona volontà di tutti si potrà scrivere un nuovo contratto sociale europeo. Di riconciliazione, finalmente.

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