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Un plebiscito improprio sul Governo

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Un plebiscito improprio sul Governo

  • –Enrico De Mita

La riforma della Costituzione, oggetto di un futuro referendum, è un modo improprio per incidere sul sistema politico che rischia di alterare in modo preoccupante l’equilibrio politico del paese. Non rilevano i profili tecnici delle singole proposte ma il disegno complessivo. Questa riforma non nasce dall’iniziativa delle forze politiche su un piano di pari rango, ma dal governo, come se fosse una parte del proprio programma e sostenuto dal solo partito di maggioranza. Gli altri partiti sono cortesemente invitati ad aderire, pena la loro esclusione. Una riforma costituzionale di tale portata che investe quasi tutti i poteri dello Stato aveva bisogno di un consenso il più largo possibile. Quando fu fatta la Costituzione De Gasperi sedette fra i banchi del parlamento, come un deputato qualsiasi, fece un solo intervento e non partecipò alla commissione dei 75. La Costituzione nacque dall’accordo di forze politiche molto distanti fra loro per impostazione politica. E tuttavia riuscì nella ricerca della “casa comune” destinata quindi a durare nel tempo.

«La Costituzione e così la sua riforma debbono essere patrimonio comune il più possibile condiviso non espressione di un indirizzo di governo e risultato del prevalere contingente di alcune forze politiche su altre. La Costituzione non è una legge qualsiasi che persegue obiettivi politici contingenti legittimamente voluti dalla maggioranza del momento, ma esprime le basi comuni della convivenza civile e politica. Ecco perché anche il modo in cui si giunge ad una riforma investe la stessa “credibilità della Carta costituzionale e quindi la sua efficacia». È questa la valutazione prioritaria dei 56 giuristi (che a parer mio sono il fior fiore della cultura giuridica italiana) dove il diritto non è una tesi fungibile con altre ma rappresenta il punto nodale dove la valutazione giuridica, nella sua autonomia sorregge la politica.

Ma c’è un rilievo che attiene al contenuto della riforma stessa. Si trattava legittimamente di modificare la struttura e le funzioni del Senato. E da questo punto di vista la conferma referendaria poteva avere quella non equivocità del quesito che la giurisprudenza costituzionale richiede per ogni tipo di referendum. Invece i punti riformati sono tanti sicché il referendum deve rispondere a quesiti diversi fra loro, e l’elettore deve scegliere con un solo voto questioni diverse. La questione è nuova e difficile sicché la Corte Costituzionale deve essere investita sull’ammissibilità di questo referendum costituito da una sola risposta a tanti quesiti. L’art. 138 Cost. che dispone il percorso di riforma costituzionale funziona per le riforme piccole riconducibili a un solo quesito (come ha detto De Siervo). Difatti tutte le riforme finora approvate (senza peraltro che sia stato necessario un referendum approvativo) costituiscono l’oggetto di un quesito semplice e unitario: la durata del Senato, la riduzione del mandato di una delle Camere, il trasferimento della giurisdizione di reati ministeriali dalla Corte alla magistratura ordinaria, l’aumento della maggioranza di due terzi per le leggi di amnistia e indulto, la modifica dell’art. 81. Inoltre, molti punti della riforma sono rinviati ad altre precisazioni legislative di carattere costituzionale il che rappresenta un’anomalia inspiegabile.

La parte relativa alle Regioni non esiste. Sono stati sovvertiti gli enti locali complessivamente. Le Province sono state soppresse senza che ce ne fosse bisogno come ha detto un economista ma solo ad ostentationem. L’ordinamento regionale è stato collocato nel limbo. Quando furono fatte le regioni nel ’70 molti di noi espressero la preoccupazione che l’ordinamento regionale non sarebbe riuscito per la verticalizzazione delle forze politiche e le ragioni di politica economica. Il difetto non è corretto perché i senatori non vengono eletti ma nominati in sede regionale col dovere di obbedienza ai leader nazionali. L’ordinamento regionale è stato un fallimento, ma il governo non ha precisato quali fossero i modi dell’autonomia tributaria e della possibilità di un’autonomia differenziata. Le aree metropolitane sono l’oggetto misterioso dei nuovi enti locali. Non si capisce perché i senatori a vita che dovrebbero essere un riconoscimento del valore di una personalità debbano rimanere in carica solo per sette anni; se si volevano conservarli la ratio della scelta era quella preesistente altrimenti si potevano eliminare. Un senatore a vita per sette anni è una contraddizione in termini. Tutti questi elementi hanno voluto rimpolpare una riforma che doveva limitarsi al Senato. Perché? Per trasformare il referendum in una scelta acritica ma che nella sostanza si propone come un plebiscito sull’attuale governo. Altrimenti ce ne torniamo a casa! Bene. Non si torna a zero ma al punto della Costituzione vigente che vive da 70 anni. Si può migliorare a patto che le riforme siano puntuali e corrette, ha detto Onida: riformare la Costituzione non è comunque una priorità per il nostro paese. Sono altre le priorità (riconducibili alla ripresa economica) alle quali si è risposto con dichiarazioni che hanno solo un effetto d’annuncio mentre le cose rimangono come prima.

L’impazzimento della propaganda per il sì, ricondurre il referendum a estrema ratio della politica vuol dire perseguire per via impropria un assetto politico dove non c’è spazio per altri partiti se non per quello del governo. Se dovessero, come mi auguro, prevalere i no non succede la fine del mondo: morto un papa se ne fa un altro. E se alcuni personaggi se ne tornano a casa poco male, non perderemo né un De Gasperi, come politico, né un Mortati come giurista. E ci sarà una liberazione all’interno della sinistra e una assunzione di responsabilità da parte delle nuove forze politiche, che non potranno essere che positive. Ora il paese è spaccato in due non per confermare o meno una modifica della Costituzione, ma per rispondere ad un plebiscito improprio: la riforma è solo un pretesto. Una forza di minoranza vuole governare sulla base di una legge elettorale che prevede un premio di maggioranza ad un solo partito, mentre dovrebbe prevedere il premio per una coalizione che raggiunga il 50% più uno dei voti.

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