Se la modesta crescita dell’economia italiana ha le sue radici nel basso andamento della produttività, in un contesto storico caratterizzato da profitti ai minimi lo scambio «salario/produttività» resta l’unico praticabile. Lo dice chiaro il nuovo presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, quando nella sua prima Relazione davanti all’assemblea annuale degli industriali affronta i temi della politica dei redditi. Numeri alla mano Boccia fotografa il disallineamento dell’economia nazionale rispetto a quella dei principali competitors europei. Dal 2000 a oggi – illustra – la produttività nell’intera economia è salita dell’1% in Italia, contro il 17% dei nostri maggiori partner europei. E nel manifatturiero i distacchi aumentano: +17% da noi, +33-34% in Germania e Spagna, +43% nel Regno Unito e +50% in Francia.
I numeri sono in linea con quelli indicati appena qualche giorno fa dall’Istat (previsioni del 17 maggio), un documento in cui si aggiunge un’evidenza ulteriore: la bassa reattività alla crisi della produttività nazionale. Ponendo pari a 100 il livello della produttività del lavoro nel 2007 (misurata come Pil per ora lavorata) l’Italia del 2015 ha registrato, secondo l’Istat, ancora un valore inferiore a quella soglia, mentre gli altri grandi paesi dell’Eurozona dopo la contrazione del 2009 sono tornati a una dinamica positiva. Il presidente Boccia ne è pienamente consapevole ma tiene a chiarire nella sua analisi una questione che spesso ritorna nel dibattito politico e secondo la quale dietro la bassa efficienza delle produzioni e i bassi valori dei prodotti ci sia il mancato stimolo dell’aumento del costo del lavoro.
È vero il contrario, spiega il presidente. Il costo del lavoro è aumentato più che in altre economie: nel manifatturiero, dal 2000, è salito del 56% in Italia, rispetto al 58% di Francia e Spagna, il 55% del Regno Unito e il 36% della Germania. «In base a questi numeri, dovremmo essere campioni di produttività» ha affermato Boccia, sapendo che putrtoppo è vero il contrario. E la conseguenza di queste dinamiche ha un’evidenza piuttosto forte nella quota del lavoro sul valore aggiunto, come ha evidenziato l’ultima analisi del Centro studi Confindustria sulla distribuzione funzionale del reddito in Italia. Risulta in crescita dagli inizi degli anni Duemila, proprio da quando la produttività del lavoro cresce, appunto, assai meno delle retribuzioni lorde reali.
Ecco i numeri del CsC che spiegano come si è determinato il calo dei profitti dell’industria italiana rispetto a quelli registrati sempre nell’Eurozona. Tra il 2000 e il 2014 il rapporto tra margine operativo lordo e valore aggiunto è calato nel nostro Paese di sette punti percentuali , mentre è cresciuto del 2% nell’Uem e dell’8% e l’8,4%, rispettivamente, in Germania e Spagna. In Francia, invece, è complessivamente diminuito di 4,5 punti (tra il 2000 e il 2013) ma grazie ai recuperi del biennio successivo si trovava, sempre nel 2013, a livelli più elevati che in Italia (37,2% contro il 34%, scondo gli ultimi dati disponibili). E il disallineamento della quota dei profitti nell’industria nazionale si riflette in un aumento del costo del lavoro per unità di prodotto (Clup).
Per uscire da queste dinamiche bisogna dunque tornare a stimolare la crescita della produttività. Le leve sono diverse e il presidente Boccia ha indicato la principale: baricentro della contrattazione collettiva a livello aziendale e una politica di detassazione e decontribuzione strutturali. «Senza tetti di salario e di premio – ha aggiunto – con lo scopo di incentivare i lavoratori e le imprese più virtuosi».
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