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    Dossier | N. 9 articoliRapporto Sviluppo sostenibile

    Tre motivi per favorire il più possibile l’impresa sociale nel nostro Paese

    • –di Stefano Zamagni
    Stefano Zamagni (Fotogramma)
    Stefano Zamagni (Fotogramma)

    Ci sono tre buone (e valide) ragioni per promuovere l’impresa sociale. La prima è quella di contribuire ad arrestare la deriva “escludente” dell’assetto economico tuttora prevalente nella nostra società.

    È noto, infatti, che il mercato da istituzione economica tendenzialmente inclusiva si è trasformato, nel corso dell'ultimo quarantennio, al seguito di fenomeni quali la globalizzazione e la terza rivoluzione industriale, in una istituzione che tende ad escludere tutti coloro che, per una ragione o l'altra, non sono in grado di assicurare livelli adeguati di produttività. Si è così venuta a creare una nuova classe sociale, quella dei “surplus people”, delle persone in eccesso che diventano “scarti umani”.

    Ebbene, l'impresa sociale – a differenza di quella for profit – ha come missione specifica quella di accrescere il tasso di inclusività economica degli esclusi. Il recente Global employment trend dell'Ilo di Ginevra ci informa che il divario occupazionale (la perdita cumulata di posti di lavoro) rispetto alla situazione pre-crisi è destinato a crescere – in assenza di interventi mirati – dai 62 milioni nel 2013 agli 81 milioni nel 2018. La nuova figura dei Neet, dei giovani sotto i 29 anni che né lavorano, né studiano, né sono in apprendistato, ha raggiunto, nel nostro paese, la allarmante cifra del 26% della popolazione giovanile. (Rosina, 2015). Si può onestamente pensare di invertire una tale tendenza, devastante e incivile come poche, puntando solo sull'impresa pubblica o su quella for profit? Non lo credo.

    Una seconda ragione ha a che vedere con l'urgenza di accrescere il tasso di innovatività nel nostro paese. È noto che le innovazioni d'impresa ricadono in tre grandi tipologie. Vi sono quelle di sostituzione (innovazioni di prodotto) che rimpiazzano un prodotto con uno di più alta qualità. Vi sono le innovazioni di processo che sono cost-reducing ed infine quelle di rottura (“disruptive innovations” come le ha chiamate C. Christensen).

    Sono quest'ultime le innovazioni che trasformano prodotti complicati e costosi in prodotti semplici e accessibili economicamente a tutti. E che creano posti di lavoro. Ebbene, oggi sappiamo che è l'innovazione sociale, quale viene praticata in modo esemplare nell'impresa sociale – anche se non solo – il volano della disruptive innovation.

    La spiegazione è presto data: l'azienda tradizionale, di fronte alla prospettiva di fare qualcosa di radicalmente nuovo, confronta il costo marginale con quel che continuerebbe a guadagnare col vecchio prodotto. Il risultato, solitamente, è a favore dell'esistente.

    Celebre la vicenda di Blockbuster, il colosso del noleggio di film che rifiutò di acquisire a basso costo l’emergente star di internet Netflix, ritenendo meno costoso fare leva sul patrimonio immobiliare già ammortizzato: sarebbe fallito nel 2010, mentre la giovane rivale valeva 13 miliardi di dollari. Il punto è che le tecniche di valutazione degli investimenti basate su indicatori quali l'investiment rate of return o il return on net assets spingono a ricercare, spesso in maniera ossessiva, guadagni veloci e di breve termine, il che non favorisce di certo le innovazioni di rottura.

    Infine, v'è la ragione della biodiversità economica. Al pari della natura (mondo vegetale e animale), anche l'economia ha bisogno che nell'arena del mercato operino tipologie diverse di impresa. È urgente superare l'anchilosante (e priva di fondamento scientifico) concezione del mercato come spazio “riservato” esclusivamente alle imprese for profit, concezione secondo la quale altri soggetti produttivi, come le cooperative, vengono visti come l'eccezione alla regola oppure soggetti come le imprese sociali e le cooperative sociali vengono incasellati nel Terzo settore, in uno spazio del sistema economico che si collocherebbe tra Stato e mercato.

    Dove risiede l'errore di questa concezione? Nel ritenere che debba essere il fine perseguito dal soggetto imprenditoriale a decidere dell'appartenenza o meno all'area del mercato. Ma non è così, perché è piuttosto la dimostrata capacità di generare valore, in forza di una strategia produttiva sostenuta da una specifica cultura d'impresa, il criterio di ammissibilità al club del mercato.

    Impresa, dal latino “in-prehendo”, significa “scoprire, percepire, afferrare”. Imprenditore è perciò chi è capace di agire e non solamente di fare. Ecco perché c'è bisogno, oggi, più che mai, di imprenditori sociali in grado di ibridare altri tipi di imprenditori al fine di trasformare un modo di produzione, ereditato dal passato, non più all'altezza delle sfide in atto.

    Sono dell'idea che, in Italia, l'intenzionalità soggiacente la appena varata riforma del Terzo settore, nella parte riguardante l'impresa sociale, sia proprio quella qui suggerita.

    L’autore è docente di Economia politica all’Università di Bologna e autore di numerose pubblicazioni sull’economia civile

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