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Così l’Italia adegua le norme sulle piattaforme digitali

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L’ONDA LUNGA

Così l’Italia adegua le norme sulle piattaforme digitali

L’onda lunga della sharing economy è da tempo arrivata anche da noi, sicuramente in ritardo rispetto ad altri Paesi dove è attecchita più rapidamente. Ma l’Italia è forse tra i primi Paesi che sta provando ad attrezzarsi con le prime regole. Come? Da una parte con una proposta di legge ambiziosa tutta di origine parlamentare (bipartisan e dai destini incerti) che tra le altre cose affronta di petto anche quello che è senz’altro il nervo scoperto dell’emergente “economia collaborativa”: quello cioè delle tasse da far pagare agli utenti di queste piattaforme - nel 2015 in Italia se ne contavano 186 (+34,7% rispetto al 2014) - che arrotondano affittando stanze, organizzando cene o dando passaggi in macchina. E dall’altra lasciando nelle mani del Governo la gestione della patata bollente di Uber. Un emendamento appena presentato dai relatori al Ddl concorrenza - che dovrebbe ricominciare a camminare in Parlamento dopo le elezioni amministrative - prevede infatti la delega al governo per disciplinare il settore degli «autoservizi pubblici non di linea», come taxi, noleggio con conducente e anche nuove piattaforme basate sulle «app» (vedi appunto Uber). Un escamotage, quello della delega, per prendere più tempo: l’Esecutivo avrà 12 mesi per lavorare alla normativa dal varo della legge della concorrenza. Prima di decidere per la delega si era andati vicini ad aprire il mercato a Uber (limitatamente al servizio di fascia alta) tramite un emendamento. Ma a un passo dal voto, e alla vigilia di uno sciopero minacciato dai tassisti, c’era stata la retromarcia sancita da un incontro tra i ministri Delrio, Boschi e Guidi.

I tempi dunque saranno lunghi. Così come non si attende una approvazione rapida per la proposta di legge sulla «Disciplina delle piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi e disposizioni per la promozione dell’economia della condivisione» che qualcuno ha già ribattezzato «Sharing economy act». Il testo - frutto del lavoro dell’intergruppo parlamentare per l’innovazione tecnologica - presentato a marzo, ha iniziato il suo iter in commissione Trasporti e Attività produttive della Camera lo scorso 3 maggio ed è stato anche al centro di una consultazione pubblica che si è conclusa nei giorni scorsi raccogliendo decine di suggerimenti dalla “rete” che i parlamentari dovrebbero nel caso integrare nel testo. Testo che tra l’altro ora non potrà non tener conto anche delle linee guida appena licenziate dall’Europa.

La proposta prevede l’iscrizione al Registro elettronico nazionale delle piattaforme digitali dell’economia della condivisione che sarà istituito presso il Garante del mercato a cui spetteranno i controlli. Ma la vera chiave di volta della proposta è ovviamente la disciplina fiscale. L’idea è semplice: fino a 10 mila euro nell’intero anno, da tutte le piattaforme che si utilizzano, si prevede di far pagare una imposta del 10% sui guadagni. Superata questa somma non si potrà più rientrare nell’apposita sezione della dichiarazione dei redditi («attività di economia della condivisione non professionale») e si dovrà fare riferimento ai canonici redditi da lavoro dipendente o da lavoro autonomo. Secondo i proponenti nelle casse dello Stato dovrebbero così entrare 150 milioni di euro nel 2016. Per crescere anno dopo anno raggiungendo i 3 miliardi nel 2025 .

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