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    Dossier | N. 123 articoliElezioni comunali 2016

    Sviluppo, mobilita, ambiente, immigrati: città italiane senza i piani “europei” di nuova generazione

    Le città sono tornate al centro dello sviluppo economico, demografico e culturale dei Paesi europei. Come dice Marco Cremaschi, docente di Teorie urbanistiche e politiche urbane a Roma 3 e Sciences Po a Parigi, curatore del rapporto sulla metropoli di Urban@it, «crescono solo i Paesi in cui le città crescono», spiegando con una correlazione diretta fra lo sviluppo urbano e quello nazionale il vantaggio francese e tedesco - in termini di Pil e occupazione - rispetto a Italia e Spagna. E Lorenzo Bellicini, direttore del Cresme: «Siamo entrati in una nuova fase urbana in cui le città crescono perché è chiaro che sono il futuro, sono il cuore della nuova rivoluzione industriale e vincono perché lì c’è il lavoro, qualificato e non. Soprattutto vincono le città in cui ci sono i giovani e mentre le città europee invecchiano, è la nuova immigrazione a garantire il rinnovamento generazionale».

    “Crescono solo i Paesi in cui le città crescono”

    Marco Cremaschi 

    Se la città è il nuovo motore di sviluppo nel dibattito europeo, tanto è che la presidenza olandese dell’Unione ha fatto della “Agenda urbana” la propria priorità, in Italia questo dibattito basato sui solidi numeri di programmi e piani urbani praticamente non si è visto, con qualche eccezione forse a Milano e Torino. In parte questo è l’effetto di una crisi economica che è stata più intensa e più lunga che nel resto d’Europa.

    “Vincono le città in cui ci sono i giovani ”

    Lorenzo Bellicini 

    Ma a cancellare il tema dalla campagna elettorale di queste elezioni amministrative ha contribuito anche il solito vizio italiano di discutere molto dell’impatto che il voto avrà sul governo nazionale e molto meno dei temi oggetto della campagna elettorale. Si aggiunga che la figura del sindaco, che dai primi anni '90 per un quindicennio è stata una figura politica di primissimo piano sulla scena nazionale, oggi sembra essere retrocessa a figura locale, dopo anni di tagli ai trasferimenti centrali, di patto di stabilità interno che ha bloccato qualunque investimento strategico senza riuscire a fermare la corsa della spesa corrente, di arretramento strutturale sul fronte dei servizi, di nodi irrisolti sul fronte delle partecipate, di scandali che hanno messo a dura prova la credibilità e l’onorabilità di varie amministrazioni (Roma in primis), di titolo V della Costituzione che ha favorito uno scellerato federalismo di tipo regionalista e la perdita totale di politiche urbane nazionali ad opera del governo centrale (si pensi al sostanziale abbandono di leggi come la 211 sulle metropolitane e di programmi complessi per la riqualificazione urbana come i Pru o i Prusst).

    Fatto sta che le città italiane - con le sole due eccezioni di Milano e Torino dove il sindaco uscente Fassino e il suo predecessore Chiamparino hanno fatto un grande lavoro di riposizionamento della città con una strategia che si potrebbe sintetizzare da “capitale dell'industria a capitale della cultura” - hanno sostanzialmente abbandonato il concetto di una pianificazione che fosse capace anzitutto di dire dove fosse posizionata la città in una competizione che sempre più si fa europea e globale e poi di dire con quali risorse e con quali strumenti si potesse raggiungere obiettivi di crescita o riposizionamento.

    Tutto questo mentre in Europa - da Londra a Parigi, da Berlino a Madrid passando per Amburgo, Barcellona, Copenaghen, Lione, Stoccolma e così via - prolifera una nuova generazione di piani urbani che affrontano - oltre al tema della vocazione o delle vocazioni della città in un contesto di competizione almeno europea - cinque grandi questioni urbane che, senza una soluzione, costituiscono il cappio al collo dello sviluppo urbano: la crescita economica e la crescita demografica, spesso interconnesse (”Bigger and better” è lo slogan di London Plan 2050); la immancabile questione infrastrutturale dove l’attenzione è ormai solo e sempre ai servizi di mobilità “contenuti” nelle infrastrutture (mai ai cantieri); il tema dell’accoglienza verso gli immigrati e gli stranieri, visti come potenziale di crescita, di ricchezza, di rinnovamento; la questione ambientale che quasi tutti i piani delle metropoli europee declinano in termini di piano per la qualità dell’aria, considerato fra i target assolutamente prioritari (uno dei 2-3 che contano davvero) per “vendere” la città all’estero.

    Come dire che Londra, mentre si propone di rafforzare la propria leadership mondiale della formazione per i figli delle upper class di tutto il mondo con la costruzione di 600 (!) nuove scuole e college, non potrebbe considerare “vincente” questa stupefacente offerta di cultura e formazione se non fosse in grado di corredarla con garanzie sulla qualità dell’aria che respireranno questi giovani o con la certezza dei tempi di spostamento da una zona all’altra della città.

    E ad allungare e aggravare tutte le distanze dell’Italia dall’Europa è proprio l’assenza di un dibattito - fra i candidati sindaci proposti dalla politica - basato su piani, numeri, proiezioni, fonti di finanziamento che provino almeno ad assumere un carattere scientifico e tecnico per dare credibilità, agli occhi degli elettori, alle proposte presentate.

    La totale disabitudine al confronto pubblico basato su numeri e statistiche certificate impedisce di vedere problemi e opportunità nella loro dimensione reale. E di sostituire allo sterile dibattito populista (per esempio su immigrati, casa, servizi pubblici) proposte di politiche mirate a risolvere singole questioni. Chi si è accorto - anche in termini di politiche abitative, della mobilità o dell’accoglienza - che la popolazione di Roma è cresciuta nel periodo 2004-2014 ‎del 9,2%, cioè poco meno di Parigi (10,5%) ma molto distante da Londra (18,3%) e da Madrid (22,3%)? E chi sa che le previsioni demografiche per il periodo 2015-2025 danno una modestissima crescita a Roma del 3,9% contro l’8,2% di Madrid, l’8,9% di Parigi e l’11,2% di Londra? C’è un dato più efficace e sintetico di questo per descrivere il rischio delle città italiane di finire su un binario morto destinato alla periferia estrema dell’Europa e sempre più staccata dalle locomotive delle grandi metropoli del Nord?

    Il misero dibattito romano - fra promesse di riscatto morale e populismo a piene mani con qualche proposta amministrativa e senza ricette di governo - è il punto più grave di uno stato di decadenza dove inevitabilmente le possibilità di riscatto saranno date da colpi di fortuna, da operazioni straordinarie o da un rapporto con il governo centrale che possa cogliere emergenze (rifiuti, trasporti, debito) o grandi eventi (Expo, Bagnoli, Olimpiadi) per dare un sostegno, soprattutto finanziario, ai nuovi sindaci.

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