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«Niente alleanze, se perdo non lascio»

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«Niente alleanze, se perdo non lascio»

  • –Emilia Patta

Roma

«Se il Pd dovesse perdere a Milano e a Roma? Non mi dimetterei, assolutamente no. Ma ho l’impressione che se il Pd perde a Roma salterebbero le Olimpiadi 2024». Matteo Renzi, tre giorni dopo i risultati non esaltanti per il partito di cui è segretario del primo turno delle comunali, ribadisce in tv, ospite da Lilly Gruber a Otto e mezzo, che la vera prova per il suo governo sarà il referendum costituzionale di ottobre. «I risultati delle amministrative non cambiano niente», insiste. Però qualcosa dentro il Pd cambierà dopo i ballottaggi, e il premier non sembra aver voglia di ammorbidire i suoi proverbiali toni nonostante il clima difficile con la minoranza interna: «Dopo il ballottaggio entriamo nel Pd con il lanciafiamme, lo assicuro», annuncia un po’ misteriosamente. Nessuna espulsione, assicura, che le espulsioni le fanno gli altri (leggi il Movimento 5 stelle, il vero bersaglio politico del Renzi di questi giorni). «Bisogna mettere al centro chi lavora e non chi sta a pensare solo alla propria carriera, mettere al centro chi vuole cambiare l’Italia e non le liti tra correnti che fanno arrabbiare i militanti», dice Renzi alludendo forse a una nuova classe dirigente selezionata tra i giovani militanti che si dedichi al partito a tempo pieno.

Qualsiasi decisione sul partito è comunque rimandata a dopo i ballottaggi. E intanto - nonostante la presa di distanza da Denis Verdini («quello dell’alleanza con Ala è un tema che non è mai esistito ma riempie i talk: l’Italicum prevede il premio alla lista e non alla coalizione e io sono stanco delle alleanze con i partitini») - il premier non sembra voler fare troppi sconti ai suoi oppositori interni, a partire proprio dall’Italicum ritenuto intoccabile («non lo cambierò»). Per il partito quello che ha in mente Renzi sembra essere più un rinnovamento radicale che un ricompattamento con l’ala bersaniana del partito e con lo stesso Pier Luigi Bersani, accusato più o meno indirettamente di «guerriglia interna quotidiana». L’ex segretario ha difeso ieri la lettura dei dati elaborata dal senatore Federico Fornaro, secondo il quale il Pd ha perso voti rispetto alle precedenti comunali del 2011. E con una delle sue metafore («avevamo una mucca in corridoio e non la si è voluta vedere») ha messo l’accento sul problema partito, che è grande. «Le metafore di Bersani non le ho mai capite bene, a cominciare da quella del tacchino sul tetto - è la risposta del premier -. Il Pd è il primo partito europeo. Ha cose che non funzionano? Può darsi, abbiamo un problema di classe dirigente che in alcuni territori passa il tempo a farsi le scarpe l’un con l’altro. Il responsabile sono io e sono consapevole che bisogna cambiare qualcosa».

Ad ogni modo Renzi, che nei prossimi giorni ha una fitta agenda di governo, non sarà al fianco dei candidati «a meno che non ce ne sia bisogno». La vittoria o la sconfitta dei candidati, è il pensiero del premier, si gioca in questa fase pre-ballottaggi sulla validità delle proposte. Uno contro uno. E in base a questo si vincerà o si perderà. La sfida di Renzi, comunque vada nelle città, resta quella di ottobre sulla riforma costituzionale per rendere «il Paese più semplice» e tagliare «casta e politici». Quanto alla guerra dei numeri tra Pd e M5S, il premier ribadisce di non condividere «la lettura grillina della vittoria del M5S: il Pd è nettamente il primo partito in Italia, senza ombra di discussione». Anzi, se si andasse ora al ballottaggio con l’Italicum a sfidarsi non sarebbero Pd e M5S bensì Pd e Fi. Schema Milano, insomma, con due partiti non anti-sistema alla sfida del ballottaggio nazionale senza più partitini, tagliati fuori dal premio alla lista. Un auspicio, sembrerebbe, ma anche una “carezza” agli elettori azzurri in vista dei ballottaggi di ora, quelli nelle città.

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