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Nomine, il ministro eserciti i poteri che ha

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L'Analisi|Politica

Nomine, il ministro eserciti i poteri che ha

L’efficienza della giustizia è un fattore essenziale per la competitività del sistema Paese ma è, più in generale, una grande questione democratica per le sue implicazioni sui diritti dei cittadini e della collettività. È quindi un imperativo categorico concentrare ogni sforzo - legislativo, organizzativo, ordinamentale - per raggiungere quest’obiettivo, per troppi anni schiacciato da un devastante scontro tra politica e giustizia, ma ancora oggi lontano da raggiungere, come dimostra la cronaca di questi giorni. Nonostante gli sforzi, la strada resta in salita. E le responsabilità sono diffuse, perché investono più soggetti: governo e Parlamento, Csm e capi degli uffici, avvocati. Giocare allo scaricabarile è improduttivo, anche se la tentazione è forte.

Va riconosciuto che tra il ministro della Giustizia e il Csm si è aperta una fase nuova rispetto a quella burrascosa dell’ultimo ventennio, anche se non mancano rimpalli di responsabilità. Per esempio sul problema irrisolto dei vuoti di organico, tornato alla ribalta in questi giorni anche per la sospensione dei lavori parlamentari sul fronte caldo della riforma del processo penale e, in particolare, della prescrizione. Il Csm ha appena approvato una delibera in cui chiede al ministro di provvedere con urgenza alla copertura dei posti vacanti (9mila tra i cancellieri e mille tra i magistrati) altrimenti si rischia il tracollo totale. Ma il ministro, di rimando, ha risposto che l’efficienza dipende, più che dal personale, da chi gestisce gli uffici: le sue statistiche dimostrano infatti che alcuni uffici a pieno regime di personale sono tra i peggiori in termini di efficienza. Ergo: il problema sta nella nomina dei capi, nel modo in cui il Csm li sceglie, cioè senza valorizzare adeguatamente le capacità organizzative. E questo problema, aggiunge, non è meno decisivo, nel contrasto alla criminalità organizzata, di quello della prescrizione o dell’introduzione di nuovi reati.

Insomma, Orlando butta il pallone nell’altra metà campo, non senza qualche astuzia politica. Da un lato, infatti, sfrutta l’assist del presidente dell’Anm Piercamillo Davigo sulle pratiche lottizzatorie nelle nomine dei vertici giudiziari; e dall’altro lato, sposta l’attenzione dalle difficoltà in cui navigano governo e maggioranza sul fronte della prescrizione (considerata misura ineludibile per contribuire al recupero di efficienza del processo penale) e su quello della modernizzazione del sistema giudiziario.

Detto questo, però, il problema delle nomine, e di una loro più attenta selezione in funzione dell’efficienza, è serio e reale. Orlando, però, non può chiamarsi del tutto fuori.

Il procedimento di nomina dei vertici giudiziari, infatti, prevede che anche il ministro abbia un ruolo, perché è chiamato a dare il «concerto», ovvero il parere sulle proposte formulate dalla commissione Direttivi del Csm, prima di portarle in plenum. E il «concerto» non è un atto notarile, un timbro apposto senza alcuna valutazione, ma un momento importante di quella «leale collaborazione istituzionale» tra ministro e Csm più volte affermata dalla Corte costituzionale (nel ’92 e nel 2003). Ovviamente, non può trasformarsi in un potere di veto o ostruzionistico, com’è capitato in passato con i ministri della Giustizia Claudio Martelli e Roberto Castelli, con i quali si arrivò addirittura a un conflitto di attribuzioni davanti alla Consulta. Quegli anni sono lontani, e lo è anche il clima di scontro che si respirava. Oggi la «leale collaborazione istituzionale» ben può esprimersi in tutte le sue potenzialità, e dunque anche con un parere critico del ministro in funzione delle specifiche attitudini del candidato e delle esigenze dell’ufficio in questione. Più che un potere, un dovere, in forza di una responsabilità condivisa.

Dice Orlando: «Il Csm dovrebbe sfruttare la banca dati creata dal ministero sulle performance di tutti i Tribunali, per valutare come il capo di un ufficio ha lavorato in precedenza, quali sono le sue attitudini organizzative e i risultati che ha portato a casa». Giusto. Ma anche il ministro potrebbe usare quella banca dati per esprimere le sue valutazioni, in una dialettica istituzionale trasparente, feconda e rispettosa delle reciproche prerogative. Ferma restando, cioè, l’ultima parola del Csm. Forse oggi ci sono le condizioni per questo tipo di interlocuzione, senza gridare a invasioni di campo. Tanto più se davvero si ritiene che le nomine dei capi degli uffici abbiano un peso strategico per l’efficienza della giustizia. Sarebbe un’assunzione piena di responsabilità e un modo, concreto, di fare ciascuno la propria parte.

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