Rischi immediati indotti dall’instabilità dell’economia globale (ed europea in particolare), che seguirebbe all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. Rischi potenziali, spalmati nel medio periodo, sul fronte della spesa per interessi qualora la fase di inevitabile fibrillazione dei mercati finanziari (che la Bce si appresta comunque a contrastare con tutti gli strumenti a sua disposizione) comportasse effetti sul costo per il servizio del debito. La linea del ministero dell’Economia per ora si attesta su un approccio prudenziale, ma non allarmistico. L’aumento dello spread registrato in questi giorni è da attribuire per gran parte alla riduzione dei tassi di interesse in Germania.
Per questo l’occhio resta puntato soprattutto sulla crescita. Il nostro paese, alle prese con una lenta e faticosa fase di uscita da oltre tre anni di recessione, con il Pil finalmente in leggera ripresa allo 0,8% lo scorso anno e stimato nei dintorni dell’1,2% quest’anno, potrebbe subire i contraccolpi della frenata dell’eurozona.
L’inevitabile rallentamento nel secondo semestre dell’anno porterebbe il Pil a ridosso del risultato conseguito nel 2015. E imporrebbe di ricalibrare le variabili di finanza pubblica. Per primo salterebbe l’impegno, peraltro già alquanto incerto ma ribadito a Bruxelles da Pier Carlo Padoan, a ridurre il debito dal 132,7% quanto meno nei dintorni del programmato 132,4 per cento. Previsione che la Commissione europea giudica scarsamente realizzabile, tanto da fissare il target 2016 allo stesso livello dello scorso anno. L’appuntamento slitterebbe di conseguenza al 2017, esponendo il nostro paese alle conseguenze del mancato rispetto della regola del debito, che imporrebbe di ridurre il passivo di un ventesimo l’anno.
È vero – come mostra l’approccio decisamente più “politico” dell’esecutivo comunitario, reso evidente dal via libera alla flessibilità per lo 0,85% del Pil deciso lo scorso 18 maggio – che non pare più questo il tempo di brandire l’arma del rigore a senso unico soprattutto nei confronti di quei paesi (tra cui l’Italia) collocati stabilmente al di fuori della procedura per disavanzo eccessivo. Se – come ribadisce Padoan – non esiste un «problema specifico» per l’Italia in caso di Brexit, la mancata riduzione del debito, in presenza di una richiesta di ulteriore flessibilità per circa 11 miliardi nel 2017 (attraverso l’incremento all’1,8% del deficit nominale), andrebbe comunque attentamente motivata. Si potrà invocare l’ulteriore eventuale effetto del rallentamento del Pil, ma si ridurrebbero gli spazi a disposizione della prossima manovra di bilancio per azioni dirette a sostenere la crescita, sgravi fiscali in primis.
A bocce ferme, occorrerà mettere in campo una correzione dei saldi pari allo 0,5-0,6% del Pil. Se si sommano tutte le opzioni allo studio, la manovra lorda lieviterebbe nei dintorni dei 20 miliardi, scontando peraltro la disattivazione delle clausole di salvaguardia (aumento di Iva e accise), programmate per il prossimo anno. Il tutto a ridosso del nuovo pronunciamento sui conti italiani, previsto in novembre, sulla base della legge di bilancio che nel frattempo sarà stata trasmessa in Parlamento e a Bruxelles. Con una variabile/incognita politica non da poco, costituita dall’esito del referendum costituzionale in programma anch’esso a ottobre.
© Riproduzione riservata