Milano “salva” per il Pd. E questa è certo una buona notizia per il premier Matteo Renzi e per il suo partito, tanto più che l’ex presidente Expo Giuseppe Sala è stato praticamente imposto dallo stesso Renzi nel segno del rinnovamento e della scelta di candidature che guardano al centro più che a sinistra. Ma le buone notizie per Largo del Nazareno e Palazzo Chigi finiscono qui. Perché il risultato clamoroso di queste elezioni comunali è la sconfitta del sindaco uscente di Torino Piero Fassino per mano della giovane candidata grillina Chiara Appendino, laddove al primo turno Fassino era uscito in vantaggio di oltre dieci punti. Assieme alla debacle del Pd a Roma (il candidato renziano Roberto Giachetti è stato addirittura doppiato dalla neosindaca grillina Virginia Raggi), il risultato di Torino è quello che più dovrà far riflettere i vertici del Pd nelle prossime settimane.
Il temutissimo “biscotto”, ossia un voto di tutti contro il Pd di Renzi ai ballottaggi, si è realizzato. Con candidati grillini al ballottaggio contro candidati del Pd, è evidente che l’elettorato di destra converge sui primi. Con l’obiettivo comune, come per altro esplicitato dal leader della Lega Matteo Salvini, di dare una prima spallata al governo. Una possibile convergenza che preoccupa Renzi soprattutto in vista del referendum confermativo sulla riforma del Senato e del Titolo V che si terrà ad ottobre. Referendum sul quale, come è noto, il premier e segretario del Pd ha giocato tutte le sue carte ipotecando il suo futuro politico e di fatto il destino della legislatura: quale migliore occasione per le diverse opposizioni? Il risultato di Torino inoltre - a differenza di quello di Roma che, sia pur clamoroso, è spiegabile con le vicende degli ultimi due anni, dall’inchiesta Mafia Capitale alla non edificante defenestrazione del sindaco democratico Ignazio Marino da parte del suo stesso partito - contiene un’indicazione tutta politica, dal momento che in pochi hanno messo in dubbio la buona amministrazione della città da parte dell’ultimo segretario dei Ds.
È dunque un vento di protesta e di malessere anti-governativo e anti-establishment che prescinde dalle condizioni della città, e che Renzi non potrà ignorare. La sconfitta a Torino, che si somma a quelle di Roma e di Napoli, avrà nel breve e nel medio periodo anche un riflesso interno al Pd. È infatti lo squillo di tromba per la minoranza per partire all’attacco su tutti i fronti: separazione dei ruoli di premier e segretario, modifiche all’Italicum, “libertà di coscienza” al referendum di ottobre e quant’altro. Uno scenario da incubo per Renzi, proprio in vista del referendum: solo contro tutti e per di più pungolato da parte del suo stesso partito. Come ha scritto Walter Veltroni nel suo editoriale di ieri sull’Unità, «dopo il voto si discuta, si discuta davvero, si cerchi di capire perché milioni di persone hanno scelto di non votare. E non si abbia imbarazzo nel dirsi che una parte del sostegno ai Cinque stelle viene da elettori di sinistra delusi».
Quel che occorre è mettere davvero «mano» al partito, con un atteggiamento che perà sia possibilmente inclusivo e senza «lanciafiamme». E andare incontro alla minoranza interna ove possibile, ad esempio mettendo a punto subito, prima del referendum, la legge elettorale sull’elezione del futuro Senato per sancire la “scelta diretta” da parte dei cittadini. E la tregua nel Pd.
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