Il voto non ha sciolto il dilemma del centro-destra. Anzi lo ha perfino esasperato. Salvini sperava di uscire rafforzato dalle urne per imporsi come leader e piegare la coalizione alla sua linea. Ma non è andata così.
Lo stesso si può dire del modello Milano e di Parisi: mancando la vittoria perde di velocità anche la versione moderata.
Il giorno dopo l'esito delle elezioni è come il giorno prima. Sia la Lega che Forza Italia restano nel limbo, in quella terra di mezzo in cui nessuno sembra avere le carte in mano per dettare la direzione di marcia. E infatti anche ieri Salvini continuava ad attaccare Forza Italia e cercava di gelare le ambizioni “nazionali” di Stefano Parisi immaginando per lui un percorso solo a Milano.
Eppure lui, qualche umiliazione in questa tornata elettorale l’ha avuta. Il misero 2,7% incassato a Roma e l’uscita della Meloni al primo turno, sono stati la conferma che lui e la destra, da soli, non vanno da nessuna parte. Né a Nord, né a Sud. Poi la sconfitta nella sua città, Milano, e a Varese leghista da più di vent'anni. È vero che quei successi raggiunti altrove - a Pordenone, Trieste o Novara - gli consentono di restare in sella e non subire “processi” ma non bastano per autoproclamarsi dominus del centro-destra. Questo goal l’ha mancato.
E resta appesa anche Forza Italia che non ha in mano i risultati elettorali per scegliere. La sconfitta a Milano sia pure per poco è comunque una sconfitta e il partito del Cavaliere si ritrova dov’era prima delle urne. In un bivio tra due leader non abbastanza forti da imporre una sterzata. Non Salvini che a Milano viene doppiato nelle preferenze dalla Gelmini con il Carroccio che viene surclassato nei voti da Forza Italia. Non Berlusconi sconfitto dalle urne e indebolito dalla convalescenza. La lotta tra i due, insomma, va avanti perché il passaggio popolare non ha rafforzato né l'uno né l'altro.
E soprattutto Salvini ha visto la sua strategia di una Lega nazionale fallire miseramente da Roma in giù. Il Carroccio arriva fino in Toscana quasi evocando quell’idea di Bossi di “Grande Padania” ma non si vede il progetto lepeniano di un Front National in salsa italiana. Ed è proprio questo che sta creando malumori in Via Bellerio. Nessuno vuole mettere in discussione il segretario – forse venerdì ci sarà un Consiglio federale – ma non tutti sono convinti che la strada sia quella giusta. Non va giù l'idea di abbandonare la questione del Nord come programma centrale del partito. Non bastano le vittorie a Novara o Trieste perché il “corpaccione” del partito è in Lombardia ed è lì che non c'è stata quell'avanzata che ci si aspettava. E non si tollera un super-presenzialismo di Salvini nei territori e in Tv e le sue lunghe assenze – invece – da via Bellerio. È l’ex capo Umberto Bossi che mette a fuoco l’insofferenza anche se nessuno pensa a un suo ritorno. Il Senatur critica la linea il vuoto di programma, l’assenza di una centralità del Nord, l’endorsement per i 5 Stelle. «Non ho mai letto un programma per queste elezioni, Salvini va solo raccattare un po' di voti per poi scappare. Cercare solo di prendere qualche sedia in più non porta da nessuna parte. È un’idea peregrina». Questo diceva ieri. E chi è fuori dal cerchio magico del giovane leader leghista faceva notare una somiglianza sempre più forte tra Matteo e l'altro Matteo. Gli imputano di non delegare, di voler essere sempre ovunque in prima linea, di personalizzare e di essere troppo assente del partito. L’altro Matteo è naturalmente Renzi.
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