ROMA
La via italiana all’Industria 4.0 richiede misure orientate alle Pmi, accurati interventi di formazione professionale, un’accelerazione sulla banda ultralarga. Sono solo alcune delle conclusioni dell’indagine conoscitiva della commissione Attività produttive della Camera su «Industria 4.0: Quale modello applicare al tessuto industriale italiano»: l’iter di discussione è iniziato ieri, la bozza - oltre 100 pagine - resterà in esame per una decina di giorni e il 6 luglio a Montecitorio il documento verrà illustrato pubblicamente alla presenza del presidente della commissione Guglielmo Epifani, del ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda e del presidente di Confindustria Vincenzo Boccia.
L’indagine suggerisce al governo di intervenire in cinque punti con la premessa che dalle esperienze internazionali già avviate si possono trarre spunti utili ma non modelli da copiare. Prioritario infatti è che il piano governativo (Calenda ha preannunciato che sarà presentato entro l’estate) si adatti alle peculiarità del tessuto produttivo del made in Italy. Lorenzo Basso (Pd), relatore dell’indagine della commissione, in un convegno organizzato a Milano ha parlato di «un obiettivo preciso: ottenere un piano di azione, con finanziamenti da prevedere già nella legge di stabilità di quest’anno, perché le tecnologie di cui si parla richiedono forti investimenti».
Secondo le conclusioni, la digitalizzazione dell’intero settore industriale richiede un vero sforzo di sistema. Di qui la necessità di organizzare una governance pubblico-privata realizzando una cabina di regia governativa, con finalità analoghe alla Piattaforma 4.0 creata in Germania, ma con una struttura più snella e flessibile. Alla guida, secondo la proposta, potrebbero essere chiamati la presidenza del Consiglio e il ministero dello Sviluppo, con il coinvolgimento però anche del ministero dell’Istruzione, dell’Economia e di rappresentanti di Regioni, enti locali, mondo imprenditoriale, scientifico e sindacale.
Il secondo punto entra nel concreto con un messaggio all’esecutivo sul piano per la banda ultralarga: fare presto e, se possibile, anche di più. Solo una rete ultrabroadband ben diffusa, soprattutto nelle aree industriali, può abilitare cambiamenti radicali nei processi produttivi. E il pur ambizioso obiettivo del governo - di assicurare all’85% della popolazione la connessione ad almeno 100 megabit entro il 2020 - viene giudicato solo un punto di partenza, viste le connessioni superiori a un gigabit progettate in Usa, Corea del Sud, Germania. Inoltre, si segnala nella bozza, andrà pienamente utilizzato il finanziamento da parte del piano Juncker che apposta 500 milioni per lo sviluppo dell’ultrabroadband.
Il terzo pilastro è la formazione per le nuove competenze digitali. La X commissione della Camera analizza i dubbi sul saldo tra posti di lavoro che si perderanno e quelli di nuova creazione e per gestire questa transizione auspica un coinvolgimento che parta dal basso, dalle scuole, a salire fino ai lavoratori delle piccole e microimprese, compreso il management intermedio. In gioco ci sono la riqualificazione del personale che svolge attività a rischio di rapida obsolescenza e il recupero della grande quantità di Neet (né occupati né coinvolti in formazione) che potrebbero trovare occasioni di lavoro attraverso una formazione mirata. Nel medio periodo questi cambiamenti potrebbero portare anche a una riorganizzazione in senso manageriale delle imprese e, di conseguenza, a sviluppi dimensionali.
Molto poi, è la tesi, si può fare per migliorare il trasferimento tecnologico quindi l’interazione tra le imprese e i centri di ricerca pubblici. Un punto su cui evidentemente l’Italia appare in ritardo, se il confronto si effettua con centri di eccellenza come il Fermilab di Chicago,il laboratorio Riken giapponese o il Diamond in Inghilterra.
La cura proposta dall’indagine si conclude infine con il capitolo sugli standard tecnologici. I Paesi industrializzati competono ormai per affermare ciascuno il proprio modello di business nell’Industry 4.0 e l’Italia deve muoversi per tempo per proteggere e promuovere il made in Italy. «Il Governo - ha commentato Basso nel convegno di Milano - deve definire un piano abilitatore, non un piano “dirigista”». Al nostro tessuto si adatta certamente meglio un modello aperto, in cui hardware e software sono distinti ma integrati, attraverso - propone il documento - «partnership tra aziende manifatturiere e produttori di software, o attraverso l’adozione di software open source». Solo standard aperti e interoperabili, che permettano di variare i fornitori e raggiungere le nicchie di mercato, valorizzerebbero appieno il sistema italiano dominato da piccole e medie imprese.
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