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Dossier Democrazia non è «metterci la faccia»

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    Dossier | N. 9 articoliFestival della Partecipazione

    Democrazia non è «metterci la faccia»

    Queste immagini sono tratte da «Le mani della città» di Claudia Pajewski, una ricerca fotografica sulla comunità multiculturale degli operai dell’Aquila, oggi definita il più grande cantiere edile d’Europa. La mostra sarà visitabile durante il Festival della Partecipazione presso gli spazi dell’Asilo Occupato.
    Queste immagini sono tratte da «Le mani della città» di Claudia Pajewski, una ricerca fotografica sulla comunità multiculturale degli operai dell’Aquila, oggi definita il più grande cantiere edile d’Europa. La mostra sarà visitabile durante il Festival della Partecipazione presso gli spazi dell’Asilo Occupato.

    La partecipazione libera e consapevole dei cittadini alla scelta dei governanti e alle loro decisioni è il fondamento della democrazia contemporanea.

    In Italia, la prima grande partecipazione democratica del popolo italiano avvenne settanta anni fa. Il 25 giugno 1946 si riunì a Roma, in prima seduta, l’Assemblea costituente eletta con suffragio universale maschile e femminile il 2 giugno, insieme alla scelta referendaria per la repubblica. La campagna elettorale era stata turbolenta, ma le votazioni si svolsero nell’ordine e con entusiasmo, come fu dimostrato dalla larghissima e imprevista partecipazione al voto. Gli elettori furono 28.005.409, pari al 67 per cento della popolazione complessiva, e la percentuale dei votanti fu dell’89,1 per cento. Le elettrici furono 1.216.241 in più degli uomini, anche se le donne elette alla Costituente furono soltanto 21 su 556 deputati.

    Mai prima il popolo italiano era stato chiamato a decidere sulla fondazione del suo Stato. I plebisciti con i quali la monarchia sabauda aveva proceduto alla unificazione della penisola avevano coinvolto una parte modesta della popolazione maschile. Nel nuovo Stato italiano la partecipazione elettorale, sempre unicamente maschile, fu esigua: solo nel 1912 il voto fu esteso facendo aumentare gli elettori da 3.329.17 a 8.672.249. Nel 1919, dopo la Grande Guerra, il corpo elettorale maschile era di 11.115.441 elettori, ma votarono solo 5.793.507, pari 56,6 per cento degli aventi diritto. Nelle successive elezioni del 1921, già funestate dalla guerriglia civile dello squadrismo fascista, i votanti furono 6.701.496, pari al 58,4 per cento. Infine, nelle elezioni del 1924, dopo una riforma elettorale che attribuiva al partito vincente un premio di maggioranza del due terzi dei seggi (riforma voluta da Mussolini dopo l’ascesa al potere nell’ottobre 1922) i votanti furono 7.614.451, pari al 63,1 degli elettori. Con la vittoria scontata del partito fascista, che infierì con la violenza contro gli avversari, fu aperta la strada al regime totalitario. La libera partecipazione del popolo alla scelta dei governanti fu abolita. Le elezioni per la Camera dei Deputati nel 1929 e nel 1934 furono votazioni plebiscitarie per dire sì o no alla lista dei candidati fascisti proposta dal Gran Consiglio del fascismo, il supremo organo costituzionale del regime totalitario. Il fascismo proclamò la negazione della democrazia, definita da Mussolini un regime che «dà al popolo l’illusione di essere sovrano, mentre la vera effettiva sovranità sta in altre forze talora irresponsabili e segrete». Per il fascismo, il popolo si esprime «nella coscienza e volontà di pochi, anzi di Uno». Alla libera partecipazione, il regime sostituì la mobilitazione coatta della popolazione nelle organizzazioni del partito.

    Solo considerando le precedenti esperienze di partecipazione popolare si può apprezzare lo straordinario significato storico delle votazioni per l’Assemblea costituente: per la prima volta, le italiane e gli italiani votarono con la coscienza e la dignità di cittadini liberi ed eguali, ed elessero i rappresentanti ai quali affidarono il compito di elaborare i principi, i valori, le istituzioni e le regole del loro Stato. Così facendo, compirono una rivoluzione pacifica per creare una repubblica di cittadini liberi ed eguali di fronte alla legge.

    La libera e cosciente partecipazione delle italiane e degli italiani fu l’atto genetico della repubblica democratica «fondata sul lavoro». Nell’articolo 1 la Costituzione affermava: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione». E il popolo era definito nell’articolo 3 come collettività di liberi ed eguali: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

    Questo accadde settanta anni fa. Ora, dopo sette decenni di travagliata vita repubblicana, il popolo italiano è chiamato a un referendum per dire sì o no a un progetto di ampia revisione costituzionale, che non è stata elaborata da un’Assemblea costituente anche se modificherà sostanzialmente l’ordinamento statale in alcuni organi e procedure fondamentali. Difficile prevedere l’esito. È però certo che la partecipazione popolare all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese incontra oggi molti ostacoli. I principali ostacoli sono crescente astensionismo elettorale, diffusa apatia politica, degradazione della cultura politica a vacua esibizione pubblicitaria di seducenti promesse; un altissimo grado di sfiducia della maggioranza nelle istituzioni parlamentari, nei governanti e nella classe politica giudicata oligarchica, inetta e corrotta; decomposizione dei partiti e aggruppamento di folle gregarie dietro un capo demagogo. Tali ostacoli sono vere insidie contro la sovranità del popolo, ma non esistono soltanto in Italia. Ovunque nel mondo, le democrazie sono esposte a insidie simili. E ovunque nel mondo democratico, c’è il rischio che una partecipazione passionale e irrazionale, promossa da chi parla alla pancia e ci mette la faccia, sostituisca la partecipazione sollecitata da chi parla alla mente e impegna la propria dignità, con l’intento di promuovere il bene comune.

    Comunque, settanta anni fa, non fu parlando alla pancia o mettendoci la faccia, ma fu pensando, ragionando e discutendo, che un’Assemblea costituente di uomini e donne, pur militanti in partiti antagonisti, insieme innalzarono i pilastri di una democrazia repubblicana, affidandole il compito di consentire al popolo italiano «il pieno sviluppo della persona umana».

    Questo testo è un’anticipazione
    dell’intervento di Emilio Gentile al Festival
    della partecipazione, dove l’8 luglio dialogherà
    con Geminello Preterossi sul tema «Il capo
    e la folla. La genesi della democrazia recitativa»

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