LONDRA
La dissoluzione del Regno Unito accelera mentre Londra cerca di rallentare la procedura di distacco dall’Unione Europea, riaffermando di non avere alcuna fretta di muovere il passo formale.
I nuovi sussulti del terremoto britannico muovono dall’estremo sud al profondo nord, fino alle contee più occidentali, unendo in un triangolo Scozia, Londra e Irlanda del Nord. Avevano detto subito di non poter subire la volontà anglo-gallese, maggioritaria per qualche centinaio di migliaia di voti e ieri gli annunci sono divenuti passi concreti. Nicola Sturgeon first minister del governo autonomo di Edimburgo ha riunito il suo esecutivo e ha confermato che «avvierà subito colloqui con Bruxelles per capire come proteggere il posto della Scozia nell’Unione europea». Nel frattempo ha confermato che cominciano «i lavori per preparare un secondo referendum» sull’indipendenza di Edimburgo. Scenario «altamente probabile», ha detto la leader nazionalista. La strategia messa a punto da Edimburgo è quindi chiara: se non sarà possibile preservare la condizione di membro Ue della Scozia, lowlands e highlands andranno la seconda volta al voto per la secessione dal Regno Unito. L’azione si muoverà in parallelo. Via subito ai colloqui con Bruxelles e via, al tempo stesso, alle procedure parlamentari per mettere a punto la legislazione necessaria per un nuovo referendum nelle terre oltre il Vallo. Nicola Sturgeon ha già chiarito che il quadro creato dalla consultazione del 23 giugno con “sì” all’Europa di scozzesi, nordirlandesi, londinesi e il “no” di inglesi e gallesi, crea «quel contesto di materiale cambiamento» utile e sufficiente per indire un altro referendum sull’indipendenza di Edimburgo.
Molto più problematico resta il contesto dell’Ulster. La chiamata di Martin Mc Guinness, ex comandante della colonna di Derry dell’Ira, esponente di punta dello Sinn Fein e vice premier nel governo locale, per un referendum sulla riunificazione con Dublino, non avrà vita semplice visto il “no” degli unionisti democratici partner nel governo locale e fedeli alla volontà di Londra. La complessità riguarda il riemergere delle tensioni sopite proprio dall’osmosi creata anche dalla Ue fra il fianco sud repubblicano e indipendente e quello nord, sotto la corona britannica, dell’isola. Se lo Sinn Fein insisterà per il referendum si andrà verso una nuova radicalizzazione del clima in Irlanda del Nord. Per il momento Martin Mc Guinness non intende cedere e come Nicola Sturgeon insiste per partecipare alle trattative con Bruxelles ricordando a tutti che l’Ulster vuole restare (57% contro 43) nella Ue.
Un posto al tavolo dei negoziatori lo rivendica anche Sadiq Khan il sindaco di Londra, successore di Boris Johnson. E lo fa mentre una sollevazione popolare sta lentamente trasformandosi da divertissement di un popolo in preda a ripensamenti in un fenomeno significativo. Ci riferiamo alla petizione per dare l’indipendenza a Londra. Change.orgpetition ha raccolto più di 130mila firme di londinesi che si allineano alla richiesta del giornalista James O’Malley di riconoscere uno status particolare alla capitale per consentirle di restare nell’Unione. Divertissement o quasi, per il momento. Diverso è invece l’atteggiamento di Sadiq Khan, assolutamente consapevole che la metropoli britannica non solo produce un quarto del pil nazionale, ma finanzia pezzi importanti del Regno Unito. Il sindaco insiste per partecipare alle trattative con Bruxelles con l’obiettivo esplicito di tenere Londra all’interno del single market. Scenario assai improbabile a meno che la Gran Bretagna non si adegui al modello norvegese (Spazio economico europeo). Un’ipotesi finora esclusa perché la costringerebbe ad accettare le regole del mercato interno, immigrazione compresa e a versare quote importanti al budget Ue, senza avere il potere e il peso di oggi. Eppure Londra è opportuno che cominci a fare i suoi conti perché proprio Oslo rischia di essere l’unica alternativa che le resta. La partenza annunciata di banchieri – da Morgan Stanley a Jp Morgan – verso Dublino o Francoforte si conferma essere ipotesi più che possibile dopo che dalla Banca centrale europea sono giunte ieri altre prevedibili conferme sull’esigenza di possedere il “passaporto” Ue per poter operare nei servizi finanziari del continente. Ovvero essere parte integrante del mercato interno che implica l’adesione alla Ue o l’adozione della costosa via norvegese.
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