Non c'è niente che desti più fiere passioni delle tasse. E non c'è niente che più ci abbia assordato, da vent'anni a questa parte, dei deficit pubblici. Questa uscita dell'«Economia per la famiglia» è dedicata, appunti, ai conti dello Stato. Argomento quanto mai delicato, doloroso e periglioso. Ma, allo stesso tempo, un argomento su cui è bene essere informati, tali e tanti sono i miti, le mezze verità e le mezze bugie che accompagnano questi conti.
Un modo per raccontare la storia d'Italia nel dopoguerra (ma anche nell'anteguerra) sarebbe quello di traguardarla dal “buco della serratura” dei conti dello Stato. Nel bilancio pubblico si collassano tutte le tensioni della società, tutto il sempiterno confronto/scontro fra bisogni illimitati e mezzi limitati. Ed è sempre presente la tentazione, per i governanti di ieri, di oggi e del futuro, di spazzare quelle tensioni sotto il tappeto del deficit. Una tentazione che è stata massima dopo il famoso “autunno caldo” del 1969, e che ha fatto derapare la finanza pubblica italiana verso un “buco nero” dove è rimasta per decenni. A uscirne è stato Carlo Azeglio Ciampi che, negli anni cruciali della corsa verso l'euro, ha riportato il deficit pubblico a quel 3% del Pil che costituiva il criterio di ammissione alla moneta unica.
Da allora la finanza pubblica italiana si può considerare sostanzialmente risanata, per quanto riguarda l'aspetto quantitativo del deficit. Ma l'eco del passato – l'immane debito pubblico accumulato dalla mala gestione degli anni che furono – rimane a minacciare il credito dell'Italia e ci costringe a tenere i conti sulla retta via, anche se questo vuol dire limitare i gradi di libertà delle nostre politiche di bilancio.
Comunque, il problema della finanza pubblica – sia per le entrate che per le spese – è un problema di qualità più che di quantità. E cambiare la qualità è molto più difficile che fare tagli e basta. C'è bisogno di una diuturna opera di riorganizzazione della macchina statale, di formazione del personale, di ridefinizione dei poteri dei dirigenti, di ricorso alla digitalizzazione e, soprattutto, di ridisegnare il perimetro dei servizi pubblici con una accorta opera di privatizzazione che assegni allo Stato il potere di regolare ma non necessariamente quello di gestire.
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