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«Se vince il No anche le Camere lascino»

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«Se vince il No anche le Camere lascino»

  • –Emilia Patta

ROMA

«Se volete che lasci non avete che chiedere un congresso e vincerlo. Se volete dividere la carica di segretario da quella di candidato premier proponete una modifica statutaria... Finché il partito lo guido io le correnti non torneranno al comando, e lo dico innanzitutto ai renziani di stretta osservanza, della prima o seconda ora o a quelli last minute. Non c’è garanzia per nessuno in questo partito, a iniziare da me». E ancora: «La stagione in cui uno, dall’alto della sua intelligenza, pensava di abbattere i leader è finita. La strategia del Conte Ugolino non funziona. Se volete i caminetti prendetevi un altro segretario, perché con me si aprono finestre».

Matteo Renzi arriva alla direzione del Pd convocata per il dopo comunali e poi rimandata per la Brexit («ci vuole fantasia - dice - per dare una lettura nazionale di quel voto») con un certo carico di rabbia. Non c’è solo la minoranza del Pd nel mirino, anche se certo le parole sul Conte Ugolino sono dedicate a un Massimo D’Alema insolitamente presente. Nel mirino ci sono anche «i cosiddetti renziani». Quelli che in Transatlantico ragionano sui possibili scenari per il dopo-Renzi se a vincere fosse il No al referendum di ottobre sulla riforma del Senato. «Qualcuno dice che non c’è più il tocco magico - rincara Renzi -. Lo sento dire nei balbettanti sussurrii che dal Transatlantico provengono soprattutto dai miei amici, i cosiddetti renziani. Ma il tocco magico non c’era neanche nel 2014 quando abbiamo perso città importanti come Livorno e Potenza mentre prendevamo il 41% alle europee». E ancora, con un affondo non usuale: «Radio Transatlantico dice che i renziani dell’ultima ora scendono dal carro... quando cercheranno di risalire troveranno occupato».

È come se il premier si sentisse accerchiato, e a tutti manda un messaggio forte: se fallisce il referendum, «cruciale per la credibilità della classe politica», non vado a casa solo io. Durante la sua relazione Renzi fa vedere il video del discorso della rielezione di Giorgio Napolitano, quando il Presidente sferzò i partiti che lo avevano richiamato al Colle per le mancate riforme. «C’eravate voi ad applaudire quel giorno, io ero a Palazzo Vecchio... C’è qualcuno tra voi che pensa sinceramente che, dopo che la legislatura è nata e ha fatto ciò che ha fatto, in caso di No al referendum il presidente del Consiglio - e io penso anche il Parlamento, ma questo non riguarda me - possa non prenderne atto?». Certo, spetta al Capo dello Stato decidere sullo scioglimento delle Camere, ma certo Renzi ha voluto far sapere ciò che ne pensa. Né sfugge il passo avanti del ministro Dario Franceschini, che nel suo intervento si esprime a favore del ritocco all’Italicum per reintrodurre il premio alla coalizione invece che alla lista. «In un mondo in cui destra e sinistra sono state sostituite da partiti populisti e partiti “sistemici”, occorre avere tutti gli strumenti per unire i partiti antipopulisti», è il ragionamento di Franceschini, che pensa alla odierna coalizione di governo come coalizione strutturale. Prendono la parola anche Graziano Delrio, che invece l’Italicum lo difende, e i “giovani turchi” Matteo Orfini e Andrea Orlando, che insistono sui temi sociali.

Per il resto della direzione di ieri resta agli atti lo scontro tra Renzi e Cuperlo, che accusa il premier di vivere nel «talent di un’Italia patinata», lontano cioè dal Paese reale. «Gianni io sono fuori dal “talent”, fuori dalla vostra macchiettistica - è la risposta di Renzi -. Fuori dal racconto che una parte di noi fa: che cioè al governo ci sia un gruppo di arroganti chiuso nel giglio magico». E resta la bocciatura dell’ordine del giorno presentato dallo stesso Cuperlo e da Roberto Speranza che chiedeva “piena cittadinanza” a chi nel Pd voterà No al referendum. Come non detto, insomma, in una sorta di dialogo tra sordi. Ma mai Renzi era stato così duro, e non solo contro la minoranza, in una direzione del Pd. A fine giornata, poi, non aiuta ad acquietare le acque la decisione dell’ex ministro del governo Monti Fabrizio Barca di uscire dalla commissione che da mesi sta lavorando alla riorganizzazione del partito («non mi pare esista la volontà di avviare le revisioni che occorrono»).

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