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Il Pd blinda Alfano, ma la fronda Ncd minaccia crisi

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centristi nella bufera

Il Pd blinda Alfano, ma la fronda Ncd minaccia crisi

La grancassa per le dimissioni di Angelino Alfano è partita.«Si dimetta oggi stesso, le intercettazioni lo inchiodano» tuonano i capigruppo pentastellati di Camera e Senato Laura Castelli e Stefano Lucidi. Sulla stessa lunghezza d’onda anche Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Il governo vacilla. E non solo per l’attacco nei confronti del ministro dell’interno dopo la pubblicazione delle telefonate che coinvolgono il fratello e il padre di Alfano, quanto per i malumori interni ai centristi. Si vocifera di una pattuglia di 8 senatori di Ncd pronti a lasciare la maggioranza, che a Palazzo Madama ha da sempre numeri risicati. Ieri un primo segnale, con la presenza di 2 esponenti del partito di Alfano - Esposito e Azzollini -all’assemblea dei senatori del centrodestra riunita per il coordinamento delle iniziaive per il «no» al referendum costituzionale.

Alfano però contrattacca. Di farsi da parte non ci pensa proprio. Va alla Camera per il question time e nel frattempo riunisce i fedelissimi nella sala del governo, ai quali assicura che non ci sarà «un caso Lupi2», con riferimento alle dimissioni dell’allora ministro delle infrastrutture oggi capogruppo a Montecitorio, che pur non essendo direttamente coinvolto dall’inchiesta giudiziaria si dimise quando venne fuori che il figlio aveva ricevuto un rolex da uno degli arrestati. «È una barbarie, mio padre è da tempo fiaccato da una malattia neurodegenerativa che non lo rende pienamente autosufficiente», replica Alfano a poche ore dalla pubblicazione delle nuove intercettazioni sulle presunte segnalazioni a Poste di 80 curricula. «Indegno» dare credito a «2 signore che parlano, anche insultandomi, e non so chi siano», insiste il ministro.

La convinzione è che questa «offensiva mediatico-giudiziaria» abbia in realtà come obiettivo il Governo. Renzi tace lasciando al capogruppo dem della Camera Ettore Rosato il compito di blindare Alfano: «Le cose che leggiamo non coinvolgono né il suo lavoro né la correttezza del suo comportamento. La richiesta di dimissioni è pretestuosa».

Nel Governo l’allerta è massima. Al Senato si seguono da vicino i movimenti dei centristi e anche dei verdiniani che per ora si limitano a stare alla finestra. Renzi ha già fatto sapere che non è disposto a farsi cucinare a fuoco lento dalle manovre di Palazzo. In realtà in questo caso è una manovra a carte scoperte. Da ieri la parola crisi non è più anacronistica. Ma non per tornare davanti agli elettori bensì per dar vita a un nuovo governo. «Di scopo, per fare una nuova legge elettorale», dice apertamente il forzista Giovanni Toti. La posta in gioco è infatti la cancellazione dell’Italicum. E lo vuole non solo il centrodestra ma anche la minoranza dem che la prossima settimana si riunirà e potrebbe ufficilizzare il proprio «no» alla riforma costituzionale. Insomma l’obiettivo è logorare Renzi, portarlo fino ad ottobre confidando nella vittoria del «no» e poi, vista anche la coincidenza con la sessione di Bilancio, formare una nuova maggioranza confidando che il Pd riservi a Renzi un voltafaccia analogo a quello che subì Letta.

Una prova generale ci sarà già la prossima settimana quando l’Aula di Palazzo Madama sarà chiamata a votare la riforma del bilancio degli enti locali per il quale serve la maggioranza assoluta ovvero 161 voti. Se dentro Ncd si vuole consumare lo strappo quella sarà l’occasione. Prima di allora è probabile che Alfano riunisca i senatori centristi (forse assieme ai deputati). Al momento si contano almeno 4 dissidenti certi: Azzollini, Formigoni, che ieri ha ribadito di essere pronto a passare subito all’appoggio esterno al governo, Sacconi e Esposito che è anche il braccio destro di Renato Schifani, il capogruppo dei centristi al Senato. Dentro Fi c’è la convinzione che ormai il dado sia tratto e che questa pattuglia sia pronta a rientrare nel centrodestra che ieri, per la prima volta, ha serrato i ranghi presentandosi davanti alle telecamere per ribadire il «no» al referendum costituzionale in tutte le sue componenti. Al tavolo, l’uno accanto all’altro, c’erano non solo i capigruppo di Fi e Lega, Romani e Centinaio, ma anche Cinzia Bonfrisco per i Conservatori riformisti di Fitto, Quagliariello, Mario Mauro e l’ex grillina Laura Bignami.

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