Sembrano una favola i tempi del «miracolo italiano», quando, negli anni Cinquanta e Sessanta, la nostra economia correva come una lepre. Da qualche lustro ormai l’economia italiana ha di nuovo le ali pesanti. Due grosse sfide sono state lanciate alla nostra economia negli ultimi vent’anni. Da una parte, l’avvento della globalizzazione ha gettato le imprese italiane in un’arena dove si affrontano/scontrano non solo le singole aziende ma interi “sistema/Paese”: la concorrenza dei Paesi a basso costo del lavoro non era una condanna per l’economia italiana; non era una condanna, ma lo è diventata perché il ‘sistema/Paese' non ha offerto un modo efficace per facilitare il passaggio di risorse da settori in declino a settori in espansione.
Dall’altra parte, l’euro ha tolto dal tavolo delle scelte la droga della svalutazione. L’economia avrebbe dovuto sostituire virtù a vizi e, con le riforma strutturali nei mercati del lavoro e dei prodotti, innalzare i nostri vantaggi competitivi così da poter compensare le perdite sui segmenti a minor valore aggiunto. Qualche riforma è stata fatta – vedi il Jobs Act – ma in ritardo e in misura non sufficiente.
La cartina di tornasole di queste perdite di velocità sta nella produttività totale dei fattori, cioè quella parte della variazione del prodotto (output) che non può essere ascritta a variazioni degli input (lavoro e capitale). Una polverina magica che riassume progresso tecnico, dotazioni infrastrutturali, qualità delle istituzioni, peso degli adempimenti fiscali e regolamentari. La via maestra per uscire dalla stagnazione sta nel capitale umano: una buona scuola che valga dapprima a far risalire i risultati deludenti dei test internazionali, e poi a stabilire un più agevole allineamento fra scuola e lavoro, anche spingendo sui sistemi duali di alternanza, alla tedesca.
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