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Le vite spezzate di tanti giovani

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IL REPORTAGE

Le vite spezzate di tanti giovani

  • – di Mariano Maugeri
(Ansa)
(Ansa)

Antonio Summo suonava la tromba nell’orchestra giovanile Apulias “ Musicainsieme” di Ruvo di Puglia. Studiava all’Istituto tecnico industriale di Andria e teneva appesa in camera sua come un trofeo il gilé verde con il risvolto nero e i bottoni d’oro della banda. Due settimane fa aveva superato l’esame di ammissione al conservatorio di Bari: 8,5 su 10.

Trombettista per sempre. Un risultato che gli aveva strappato un sorriso. Antonio era un ragazzo ombroso. «Avevo vent'anni e non permetterò mai a nessuno di dire che è l’età più bella per vivere», scriveva il filosofo francese Paul Nizan all’inizio del novecento. Antonio di anni ne aveva 15 anni, e tornava da Andria dove aveva partecipato ai corsi di recupero estivi di perito tecnico.

Di ragazzi come Antonio i due treni che viaggiavano alla massima velocità tra Barletta e Bari erano pieni. Filavano a 130 chilometri all’ora su un binario unico a sette chilometri dalle stazioni di partenza e di arrivo. Sulla Barletta-Bari si viaggia come ai tempi del filosofo francese Nizan: nessun sistema di segnalamento ferroviario, nessun apparecchio capace di rilevare una massa metallica che corre alla velocità massima in direzione opposta. Ieri mattina il capostazione, con un gesto inconsapevole, ha alzato la paletta verde e rossa verso la strage. L’urto frontale è spaventoso: un carro, così li chiamano i ferrovieri, s’infila dentro l’altro. Corpi e lamiere diventano la stessa cosa. La morte avviene per schiacciamento. Dalla luce accecante al buio in un nanosecondo. A morire è anche un agricoltore riverso a lavorare nell’uliveto che corre ai lati della ferrovia. I medici dell’ospedale di Andria, una bella struttura di sei piani con la facciata in pietra di Trani, si affannano per risalire alle generalità di quest’uomo tra i cinquanta e i sessant’anni senza documenti e con un pezzo di metallo conficcato tra il collo e la schiena.

L’ospedale di Andria diventa il luogo dove si incrociano disperazione e slanci di solidarietà. La mamma di Pasqua Carnimeo, 33 anni, ha un vestito blu leggero e il rimmel che cola. Accanto a lei c’è la nonna in sedie a rotelle. Aspettano notizie di Pasqua che viaggiava verso Bari dove lavorava da estetista. «Il suo nome non risulta ancora tra i morti, ma il telefono è spento», dice la nonna mentre i suoi occhi azzurri si coprono di lacrime. Pasqua era di Bari ma aveva sposato un andriese. Era perché qualche ora dopo il suo nome apparirà nell’elenco di chi non ce l’ha fatta.

Di Andria era pure il macchinista Pasquale Abbasciano, 60 anni, alla guida del treno che correva verso Bari. Pasquale doveva andare in pensione a settembre, e da giorni telefonava di qua e di là per organizzare i doppi festeggiamenti: una figlia in sposa, con la cerimonia in Comune fissata per oggi, e in chiesa il 12 settembre. Un altro andriese molto conosciuto, anche se originario di Galatina, in provincia di Lecce, era il vicequestore aggiunto alla Questura di Bari Fulvio Schinsari. Una sequenza di croci, di ricordi, di “io lo conoscevo”. Il piazzale davanti l’ospedale si trasforma in un’agorà, con le crocerossine che stringono le mani a mamme, sorelle e fratelli in attesa di notizie. C’è pure una psicologa del Sipem, Società italiana di psicologi per l’emergenza, che non smette di martellare i centri di emergenza alla ricerca degli scomparsi. Tutti chiedono febbrilmente notizie. Ma nove volte su dieci si tratta di conferme infauste. Non tutte, per fortuna. Samuele, sei anni, si salva perché gli è rimasta solo la forza di urlare. I vigili del fuoco lo placano mettendogli davanti uno smartphone con un cartone animato mentre cercano di liberarlo dall’abbraccio delle lamiere. Uno in meno nella conta lugubre, con il saldo dei morti e dei feriti che ormai passa di bocca in bocca come il risultato di una partita tra la vita e la morte.

Il popolo pugliese soffre e solidarizza con la stessa intensità. Gli sguardi metà levantini e metà normanni sono pieni di commiserazione e mostrano l’ostinazione di chi è pronto a offrire un aiuto concreto. Nessuna passività, nessuna resa. Tutt’altro. Il reparto di ematologia di cui è dirigente Luciano Lorusso, capelli brizzolati e camice verde, diventa meta di un pellegrinaggio, gente che arriva pure da settanta, cento chilometri di distanza per donare il proprio sangue. Racconta Lorusso, mentre il suo cellulare, con la suoneria di una sirena della contraerea, continua a squillare: «Da settimane eravamo già in emergenza con il sangue. Ieri la situazione rischiava di precipitare. Nessuno si aspettava una corsa collettiva ai centri di Molfetta, Barletta, Andria, che hanno chiuso la giornata con almeno settanta, ottanta donazioni per ciascun nosocomio».

Nell’arco di un quarto d’ora, dalle 18 in poi, arrivano a donare il primario di neurochirurgia in pensione, Raniero Mignini e un lucano di Palazzo San Gervasio, Ignazio Di Chio, sessanta chilometri da Andria. Qualche minuto dopo bussa alla porta di Lorusso Angelo Baldassare, un quarantenne appena rientrato da Roma al quale era stato prelevato il sangue appena due mesi e 28 giorni fa (per la donazione l’intervallo minimo è di tre mesi). Lorusso, che nel 2011 fu uno degli angeli di Lampedusa durante lo sbarco dei migranti tunisini, accenna un sorriso stanco: «Lo slancio dei pugliesi non mi stupisce, ma quando avviene in misure cosi imponenti scalda
l’anima».

Il suo pensiero non smette di andare al momento della tragedia. «Quel treno lo prendo pure io», si accalora. E lo sguardo, come un magnete, è attratto di nuovo dalle foto dall’alto dell’incidente che scorrono sul personal computer, con i due treni sbriciolati che sembrano modellini: «Ma ce t’agghja deisc!» (ma che cosa ti devo dire) esclama il dialetto barese.

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