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La caccia di Borsellino alla «Cosa Unica»

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Attualità

La caccia di Borsellino alla «Cosa Unica»

(Olycom)
(Olycom)

Quell’agenda rossa doveva sparire ad ogni costo perché, da poche settimane, tra mille e puntigliose annotazioni, Paolo Borsellino stava scrivendo anche circostanze, luoghi e alcuni nomi dei “riservati” e degli “invisibili” che facevano parte del “consorzio” tra le mafie nazionali e dei suoi raccordi con quelle internazionali. Stava, in altre parole, correndo contro il tempo per raccogliere il testimone di Giovanni Falcone, pur sapendo che, come lui, avrebbe trovato di fronte un ostacolo insormontabile: gli apparati deviati dello Stato.

In coincidenza con l’anniversario della strage di via D’Amelio, dove 24 anni fa persero la vita il giudice e cinque agenti di scorta, si apre un filone delicatissimo.

La Procura della Repubblica di Reggio Calabria (il capo Federico Cafiero De Raho e il sostituto Giuseppe Lombardo) apre, con l’indagine Mammasantissima che la scorsa settimana ha portato in carcere quattro soggetti e fa pendere una richiesta di arresto per il senatore Antonio Stefano Caridi (Gal), un filone delicatissimo che trova nel lavoro delle Procure di Palermo e Caltanissetta sponde indispensabili per portare un anello di verità nella morte di Falcone e Borsellino e nella catena di depistaggi.

Lo fa lavorando sottotraccia, con decine di interrogatori, riletture di vecchie deposizioni e mille incroci probatori affidati in primis ai Ros dei Carabinieri di Reggio (prima comandati da Valerio Giardina, poi da Gianluca Piasentin e infine con la stessa lena dei precedenti da Leandro Piccoli), alla Gdf (retta da Alessandro Barbera) e alla Dia (guidata da Gaetano Scillia).

Il punto di partenza è uno e uno solo e corre sull’asse dei pentiti Tommaso Buscetta-Leonardo Messina. Il primo, rivolgendosi a Falcone, disse: «La camorra, non voglio neanche parlarne, non mi occupo di buffoni capaci perfino di arruolare guardie municipali. Quanto alla ’ndrangheta, ma è sicuro, signor giudice, che esista veramente?».

Il secondo, il 30 giugno 1992, appena 19 giorni prima della strage di via D’Amelio, cominciò la sua collaborazione con Borsellino. Messina – di San Cataldo, feudo della mafia dei Madonia, uomo d’onore dal 21 aprile 1982 – il 4 dicembre 1992 riprenderà in Commissione parlamentare antimafia il filo drammaticamente interrotto con Borsellino e mai più – prima d’ora – approfondito. A partire dalla verità più sconvolgente: l’esistenza di una Commissione nazionale di strutture segrete e riservate in primis di Cosa nostra e ’ndrangheta che nel nome degli affari non solo aveva rapporti con la massoneria deviata e gli apparati infedeli dello Stato ma con essi si fondeva e influenzava politica ed economia. Messina dirà di più: almeno dall’86 aveva indicato allo Stato come dare la caccia ai vertici della Commissione nazionale e ai suoi rapporti con le altre consorterie mondiali ai cui vertici, nel 1991, sedevano come “vice” Totò Riina e Piddu Madonia.

Tutto o quasi è rimasto nel cassetto e ci sono voluti 21 anni (l’indagine Mammasantissima si sta dipanando da circa tre ed è il proseguimento di Meta, avviata nel 2010 e ostacolata perfino con fughe di notizie pilotate) per iniziare a riavvolgere il nastro di quella stagione stragista e delle motivazioni per le quali la morte di Borsellino, dopo quella di Falcone, era ormai diventata urgentissima e, con la sua fine, l’obbligo di far sparire i minuziosi e sconvolgenti appunti e tracce di lavoro anche sulla “Commissione nazionale” e i suoi uomini marci infiltrati ovunque.

Il Gip Domenico Santoro, recependo il recentissimo lavoro della Dda di Reggio Calabria, mette nero su bianco che «ancora più elevato, poi, appare il programma della componente riservata, composta da pochi, che muovono le fila, che si muovono nell’ombra, nel gestire le relazioni riservate, in un sistema integrato che abbraccia anche altre organizzazioni criminali di tipo mafioso, che curano i rapporti con gli apparati pubblici e con quelli istituzionali, in grado di consentire alla struttura associativa di essere parte di una potentissima struttura organizzata di tipo mafioso, che si avvale delle potenzialità degli apparati massonici che la compongono senza più subire le limitazioni di confini territoriali o di angusti e superati ambiti operativi». Il comandante nazionale del Ros, il generale Giuseppe Governale, non a caso dirà: «Questa indagine è uno spartiacque e chiunque voglia affrontare seriamente la lotta alla criminalità organizzata, dovrà partire da qui».

E su questa “Cosa Unica” riservata e invisibile – che a breve vedremo sarà ribattezzata anche “consorzio” – appare decisivo per la Dda reggina non solo quanto dirà il pentito Gioacchino Pennino, medico chirurgo mafioso del quartiere palermitano di Brancaccio, il primo a parlare per esperienza diretta dei rapporti tra Cosa nostra e Stato ma soprattutto quanto dirà in un interrogatorio del 18 marzo 2014 il collaboratore di giustizia messinese Gaetano Costa «…si arrivò, anche, a progettare e, poi, a dare forma ad una super-struttura che comprendeva le due organizzazioni: la cosiddetta Cosa Nuova. Si trattava di una sorta di organizzazione mafiosa di vertice che ricomprendeva sia gli elementi di spessore e di peso di Cosa Nostra che quelli della ’ndrangheta. Ciò avrebbe consentito uno scambio di favori ancora più intenso e continuo fra siciliani e calabresi. Ma non solo: Cosa Nuova serviva anche ad inserire in modo più organico nel tessuto del crimine organizzato siciliano e calabrese, persone insospettabili, collegamenti con entità politiche, istituzionali e massoniche». E a domanda dei pm su un esempio concreto delle sinergie fra Cosa nostra e ’ndrangheta Costa risponde: «sicuramente l’omicidio del giudice Scopelliti… omisiss…», ucciso il 9 agosto 1991 a Piale (Rc) mentre stava preparando, in sede di legittimità, il rigetto dei ricorsi per Cassazione avanzati dalle difese dei più pericolosi esponenti mafiosi condannati nel primo maxiprocesso a Cosa Nostra, istruito proprio da Falcone e Borsellino.

Il pm reggino Lombardo – al cui fianco ha sempre lavorato il capo della Procura e via via altri pm con indagini parallele alcune delle quali confluiranno anche in sede processuale – ha trovato ampi riscontri anche in terra calabrese, tanto che il Gip Santoro scrive che i pentiti «confermano l’esistenza di una componente riservata della ’ndrangheta che risulta correlata in maniera stabile alle omologhe componenti siciliane».

Fra tutti il pentito Antonino Fiume – quintessenza della cosca calabrese De Stefano – che il 16 maggio 2016 (dunque appena due mesi fa) confermerà quanto aveva già detto il 26 gennaio 2015 e cioè che «i componenti di tale struttura di vertice, che aveva sede a Milano ed era stato costituita nel 1986/87, erano: per la ’ndrangheta …omissis… Franco Coco Trovato e Antonio Papalia». Chiamerà questa struttura “consorzio” e di essa la Dda di Reggio sta scavando le parti massonico/ deviate e dei servitori infedeli dello Stato, vale a dire la parte più pericolosa (anche per se stessa).

E qui la memoria della Procura reggina si riannoda al punto di partenza, in altre parole di Buscetta che rivolgendosi a Giovanni Falcone disse: «Non mi chiedete chi sono i politici compromessi con la mafia perché se rispondessi, potrei destabilizzare lo Stato».

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