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Iter legislativo e titolo V, uno Stato più semplice

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le ragioni del «sì»

Iter legislativo e titolo V, uno Stato più semplice

In autunno saremo chiamati a esprimerci su un referendum di revisione costituzionale, doppiamente storico: per il testo, perché finalmente introduce tante soluzioni che, seppure da tempo arate in Parlamento e nell’opinione pubblica, ancora nei fatti attendono di essere introdotte nell’ordinamento; e poi per ragioni relative al contesto, di crisi e di instabilità politica che, a partire da molti Paesi europei che ci circondano, chiaramente permea questo voto. Così, nelle scelte di merito – per definizione sempre perfettibili, proprio perché fondate non nella fredda accademia ma nel caldo del compromesso politico (fatto che porta sempre critiche, lo fu allora anche per la nostra Costituzione) - il referendum parla pure contro quello spirito di rassegnazione e di declino, anche economico, che domina ancora troppa opinione pubblica.

Sarà un voto importante per tanti aspetti, dunque. Per dare e per avere fiducia, per essere e per dimostrarsi finalmente maturi. Perché, facendoci fare un passo in avanti nell’aggiornare la nostra Costituzione e le sue istituzioni al tempo che cambia, ci consentirà anche di superare le paure, gli egoismi e le divisioni politiche che hanno bloccato il Paese, dando contemporaneamente un segnale forte di stabilità, in quello che appare, come direbbe Tony Judt, un «mondo guasto». Una bella opportunità, insomma. Da non sprecare. È tempo, infatti, di superare l’anomalia di un Paese fondato, a partire dal funzionamento delle sue istituzioni, sulla diffidenza reciproca tra le forze politiche - un fatto in sé comprensibile allora al tempo della guerra fredda, ma del tutto ridicolo ora, al tempo della globalizzazione e dell’Unione europea – votando, appunto, sì al referendum di autunno, sanando quelle scelte istituzionali che, incentivando i veti reciproci dei partiti in Parlamento, cancellano il valore dei voti degli elettori nell’urna.

Va superato: il bicameralismo paritario, costruito per rallentare strutturalmente la soluzione parlamentare dei problemi; un governo per natura instabile, non a caso se ne sono avuti 63 in 70 anni, con l’attuale che è già il sesto nel ranking della longevità; un rapporto tra Stato e Autonomie, sempre oscillato, in modo confuso, tra uno sbilanciamento eccessivo in favore dell’uno o, dopo il Titolo V del 2001, delle altre. Eppure, nonostante ciò sia, da oltre trent’anni, patrimonio comune degli studiosi, della politica e, ormai, anche dei cittadini, tutti i tentativi di riforma sono falliti. Perché? Sinteticamente, si può dire per paura - e per interesse - che nulla cambiasse.

Non è un caso, d’altronde, che la riforma nasca su tre ragioni ulteriori, di contesto, che le danno forza: la debolezza delle nostre istituzioni, soprattutto di fronte alle due crisi economiche che dal 2006 attanagliano il mondo; l’esito elettorale del 2013, senza vincitori, che stava per trasformare un sistema politico bloccato in una crisi istituzionale, evitata dalla rielezione del presidente Napolitano; infine, l’aumento del populismo, che diviene lo strumento per bloccare - corrodendole da dentro - le stesse istituzioni. Da qui, una più forte necessità di riforma. La quale, con saggezza, evita quattro punti sensibili che, in vario modo, hanno fatto naufragare quelle del passato: infatti, non modifica la Parte prima della Costituzione, quella dei valori; non la forma di governo, che rimane di tipo parlamentare; non i poteri del Capo dello Stato; né infine le garanzie, da quelle della magistratura, che rimangono, appunto, intatte, fino a quelle della Corte costituzionale che, tramite il ricorso preventivo contro la legge elettorale, si vede aumentati i poteri.

Così, con precauzione, nel metodo, rispettando l’articolo 138 della Costituzione, approvando tutto in Parlamento (senza leggi speciali o bicamerali di sorta), ricercando comunque il referendum e distinguendo la maggioranza per le riforme da quella per il governo, la revisione prevede, nel merito, tre principali innovazioni: modifica il bicameralismo paritario; razionalizza il rapporto tra lo Stato e le autonomie; semplifica e innova il procedimento legislativo e i livelli istituzionali, tagliando pure costi e sprechi. Emerge così un bicameralismo differenziato: con la Camera che, espressione dell’indirizzo politico, la sola legittimata da un voto popolare diretto, è l’unica titolare del rapporto fiduciario, prevalendo nella legislazione rispetto al Senato, a partire dalla legge di bilancio. E un Senato di 100 componenti che, dando finalmente una sede costituzionalmente chiara all’identità del Paese, rappresenta le istituzioni territoriali, curando innanzitutto l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori e la valutazione delle politiche pubbliche e dell’attività̀delle pubbliche amministrazioni nonché, in poca parte, intervenendo nella legislazione che inerisce le autonomie e le grandi decisioni che restano di tipo bicamerale. Sostengono i contrari che la lunghezza dei tempi del nostro bicameralismo - un «doppione inutile» come lo bollò Costantino Mortati - sia figlia della politica, non della meccanica. Può darsi, tuttavia le istituzioni servono a prevenire i comportamenti sbagliati, non ad incentivarli. Ad libitum.

Viene poi modificato il rapporto tra lo Stato e le Autonomie, sopprimendo il “tiro alla fune” delle competenze concorrenti – che tanto contenzioso hanno comportato – tramite una redistribuzione delle materie tra quella esclusiva statale e quella regionale, sapendo meglio “chi fa cosa”, e rafforzando il numero delle materie in capo allo Stato (per esempio: energia a grandi infrastrutture). Sostengono i contrari che questo sia un fare centralista che uccide l’autonomia regionale. Si vedrà. Al di là delle poche virtuosità regionali di questi anni, l’incentivo ad un regionalismo differenziato - fondato però sulla qualità del buon governo - dice esattamente l’opposto.

Emerge, infine, un nuovo rapporto Governo e Parlamento che, evitando l’abuso della decretazione d’urgenza, introduce, per i disegni di legge essenziali, un fast-track di approvazione. Sostengono i contrari che ciò, unito alla legge elettorale, darà al governo un indebito potere. Ritengo che non sia vero: perché legare la riforma costituzionale a una legge, per natura transeunte, come quella elettorale (dal 1993, ne abbiamo avute già tre!), ci lascia comunque cattive istituzioni. E perché è proprio la stabilità del governare - responsabilità e identificabilità delle scelte – la cura reale all’antipolitica.

Si poteva fare di più? Certamente. Tuttavia questa riforma è positiva perché è nel pieno solco della nostra tradizione costituzionale, perché la prospettiva delineata evita un nuovo eccezionalismo, perché fa del voto dell’elettore il cuore della stabilità delle istituzioni. Di questi tempi, non mi pare poco.

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