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L’instabilità non dipende dal bicameralismo perfetto

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le ragioni del «no»

L’instabilità non dipende dal bicameralismo perfetto

Uno degli argomenti che vengono portati dai fautori del sì al referendum di ottobre è che la riforma gioverebbe a dare all’Italia più stabilità governativa (si evoca spesso il gran numero di governi succedutisi in Italia dal 1948 ad oggi) e una democrazia “decidente” (la cosiddetta “governabilità”). Ora, se si tiene presente il contenuto reale della legge di riforma sottoposta a referendum, è facile constatare che esso non ha nulla a che fare col problema della stabilità dei governi, e ha poco a che fare con l’efficienza dei processi decisionali. Infatti il governo, che nel nostro sistema nasce in Parlamento, in cui il voto di fiducia investe l’esecutivo ritenuto più rispondente all’indirizzo della maggioranza, è “stabile” fin quando la maggioranza non cambia o non muta indirizzo. E la forza o la debolezza, la compattezza o la divisione delle maggioranze sono un problema prima di tutto politico, non costituzionale.

Cosa fa la riforma? Affida ad una sola Camera (quella dei deputati), anziché ad entrambe, il ruolo di votare la fiducia al governo, e quindi di esprimere l’indirizzo di maggioranza (innovazione, questa, si noti, che è forse l’unico punto su cui quasi tutti sono d’accordo, sostenitori del sì e sostenitori del no). Ma ritenere che sia il bicameralismo “paritario” (due Camere che danno e tolgono la fiducia) la causa o addirittura la causa principale della ìnstabilità governativa è una clamorosa “non verità”.

Da quando esiste la Repubblica e fino al 2013 si può dire che mai i problemi della stabilità delle maggioranze e dei governi sono dipesi dall’esistenza delle due Camere. All’epoca della Costituente (1946-48) si succedettero tre governi e almeno due maggioranze alquanto diverse (di “unità nazionale” e poi “centrista”) che godevano la fiducia dell’unica assemblea costituente. Dopo l’entrata in vigore della Costituzione, in ciascuna delle sedici legislature succedutesi fino al 2013 abbiamo avuto o una unica maggioranza, più o meno ampia (prima centrista, poi di centro-sinistra, poi di “pentapartito”, e più di recente di centro-sinistra o di centro-destra) che ha dato vita a più governi; o mutamenti di maggioranza nel corso della stessa legislatura. Ebbene, mai i problemi del formarsi o del disfarsi delle maggioranze nell’ambito della stessa legislatura - dalle vicende all’inizio degli anni Sessanta, alla formazione del governo Monti nel 2011 – sono stati dovuti all’esistenza di due Camere e ad una diversità di maggioranze all’interno di esse (la crisi, nata esplicitamente in Parlamento, del primo governo Prodi nel 1998 fu causata da un voto di sfiducia – 313 voti contro 312 - della Camera dei deputati).

Nel 2013, per la prima e unica volta, le elezioni hanno dato luogo a due Camere che non esprimono la stessa maggioranza: infatti il PD da solo ha la maggioranza fra i deputati, ma non fra i senatori, onde deve formare il governo appoggiandosi su una maggioranza più ampia. Fino ad allora, Camera e Senato hanno in sostanza espresso sempre le stesse maggioranze, forti o deboli, ampie o meno ampie, coese o meno coese al loro interno.

Si noti, per inciso, che il risultato del 2013, del tutto inedito e in parte casuale (dovuto al differente modo di attribuire il premio di maggioranza alla Camera e al Senato) è stato il frutto dell’applicazione di una legge – la legge “Calderoli” del 2005 – che nel 2014 la Corte costituzionale ha giudicato illegittima, principalmente proprio perché conferiva un premio tale da consentire di trasformare in maggioranza la minoranza più forte qualunque essa fosse, compromettendo eccessivamente il principio di rappresentatività.

Come si fa allora a dire che concentrando in una sola Camera il compito di votare la fiducia all’esecutivo si otterrebbe l’obiettivo di avere governi e maggioranze più stabili?

La realtà è che questa partita il governo in carica l’ha giocata e la gioca non sul terreno della riforma costituzionale, ma su quello, assai diverso, della legge elettorale. Cioè, l’obiettivo di avere governi più stabili non è perseguito con la riforma costituzionale, ma con la nuova legge elettorale che prevede, alla Camera, l’attribuzione della maggioranza assoluta dei seggi (il 54 per cento) alla sola lista che ottenga almeno il 40 per cento dei voti, ovvero che, ammessa al cosiddetto ballottaggio fra le due liste più votate (in qualsiasi misura) al primo turno, prevalga sull’altra unica lista, quale che sia il numero dei votanti al secondo turno. Né si dica che questo obiettivo sarebbe frustrato se non passa la riforma costituzionale, in quanto la nuova legge elettorale si riferisce solo alla Camera, e perciò, se resta il Senato attuale, questo verrebbe eletto (a seguito della pronuncia della Corte costituzionale) con la proporzionale senza premio di maggioranza, impedendo di “replicare” la maggioranza “premiata” alla Camera. Infatti ciò sarebbe dovuto all’anomala scelta del Governo e del Parlamento in carica, che dopo la sentenza della Corte (che riguardava entrambe le Camere) non hanno promosso e approvato una nuova legge elettorale anche per il Senato, perché hanno dato per acquisita la scomparsa di quest’ultimo come Camera “politica” eletta direttamente. Come dire che hanno fatto la legge elettorale come se la Costituzione fosse stata già cambiata. Ma le leggi si fanno a Costituzione vigente, non supponendo già in vigore una nuova Costituzione (è in qualche misura lo stesso vizio della cosiddetta legge Delrio, che di fatto fa quasi scomparire le Province in tutte le Regioni, prima che la riforma costituzionale, se entra in vigore, ne sancisca davvero la soppressione).

In definitiva il voto sulla riforma costituzionale ha un oggetto che sostanzialmente non c’entra col tema della stabilità delle maggioranze. C’entra con altri temi: quello di un serio bicameralismo differenziato (auspicabilmente non quello raffazzonato disegnato dalla riforma votata); quello di un migliore assetto del sistema regionale (che invece la riforma, a mio avviso, peggiora decisamente).

Non si vota sulla legge elettorale: benchè si capisca bene, dal punto di vista politico, che il Governo cerchi di collegare i due temi (puntando sul combinato disposto delle due riforme). Ma allora si dovrebbero discutere i due argomenti distintamente, e comunque non attribuendo impropriamente alla riforma costituzionale meriti (o demeriti) che non le spettano. Anche perché la Costituzione dovrebbe sempre mantenere il suo carattere di “terreno comune” condiviso al di là dei conflitti politici contingenti; la legge elettorale (pure anch’essa auspicabilmente condivisa) è invece una legge ordinaria, più facilmente modificabile, anche in rapporto al mutare degli assetti politici. Sulla nuova legge elettorale, peraltro, molto vi è secondo me da obiettare quanto alle scelte di questo Parlamento: vi tornerò, potendo, in un’altra occasione.

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