La preoccupazione per l’ambiente è una conquista relativamente recente. Prima si dava priorità allo sviluppo, “costi quel che costi”: un atteggiamento storicamente comprensibile, e ne troviamo ancora oggi i tristi riflessi nell’inquinamento nei Paesi che hanno scelto lo sviluppo “a rotta di collo” (vedi lo smog di Pechino...).
Oggi il pendolo sta oscillando dall’altra parte e lo sviluppo “sostenibile” è ormai un passaggio obbligato di ogni politica di espansione dell’economia. Di solito i segnali per distribuire le risorse nel modo migliore vengono dati dai prezzi di mercato, ma ci sono molti casi di “fallimenti del mercato” e in questi casi bisogna ristabilire la verità dei costi. Per esempio, una conceria, nel produrre le pelli, finisce con lo scaricare i liquami di scarto nella terra o nei fiumi: questo non è un costo per la conceria, ma è un costo per la collettività, una “esternalità negativa”. Si può riportare questo costo a carico dell’azienda con una tassa sui liquami di scarico; o con un divieto assoluto, che costringe l’impresa a modificare il processo produttivo. C’è una terza via, che è quella di stabilire un mercato dei “permessi di inquinare”.
L’economia “verde” c’è e acquisterà sempre maggior importanza. Questo colore (della speranza) non riguarda solo gli aspetti “non di mercato”, come congestione e inquinamento. Riguarda anche gli aspetti di mercato, come nel caso dell’energia, dove ci si preoccupa di ridurre la quota dell’energia inquinante e aumentare quella da fonti rinnovabili. Con l’avvertenza di usare del concetto di “impronta energetica” (la quantità di energia impiegata, direttamente o indirettamente, per produrre un bene o un servizio) per valutare la convenienza delle energie “pulite” (per esempio, per produrre le eliche degli impianti eolici ci vuole energia, non sempre pulita...).
Una buona notizia sta nel fatto che, a livello dei Paesi e del mondo, l’intensità energetica (quantità di energia impiegata per ogni unità di Pil) sta diminuendo un po’ dappertutto.
© Riproduzione riservata