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Pensioni, caccia all’«equilibrio»

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Attualità

Pensioni, caccia all’«equilibrio»

Anticipo pensionistico, semplificazioni per lavoratori impegnati in attività usuranti e per quelli che hanno iniziato prima dei diciotto anni, nuove regole per valorizzare senza costo i contributi accumulati in gestioni differenti sono gli strumenti a cui sta lavorando il governo e che dovrebbero approdare nella prossima legge di Stabilità per rendere più flessibile il sistema previdenziale dopo la riforma del 2011.

Si tratta di trovare un difficile equilibrio tra allentamento dei requisiti, relativi costi (determinati dal fatto che vengono versati meno contributi e ci sono più pensioni da pagare) e una stima attendibile delle persone che utilizzeranno queste vie d’uscita per determinare gli oneri complessivi dell’operazione.

A questo proposito, ieri, l’Inps ha diffuso l’aggiornamento dei sette provvedimenti di salvaguardia attuati per consentire di andare in pensione con i vecchi requisiti ai lavoratori troppo penalizzati dalle regole introdotte dal governo Monti. Su 172.466 posti complessivamente disponibili, sono state accolte 128.079 domande (i termini per l’invio sono tutti scaduti) mentre altre 1.949 sono giacenti e 54.509 sono state respinte. L’operazione di valutazione delle richieste, quindi, è alla fase conclusiva e sommando le domande accolte e quelle giacenti si arriva a quota 130.028. Di conseguenza resteranno inutilizzati 42.438 posti.

La buona notizia è che l’operazione costerà meno degli 11,4 miliardi previsti e i risparmi potrebbero essere utilizzati per ulteriori interventi volti a incrementare la flessibilità del sistema previdenziale. Il dato che fa riflettere, invece, è che il 24% dei posti stimati come necessari rimane inutilizzato. Difficile pensare che i requisiti siano troppo stretti, dato che sono stati “allentati” più volte nel corso del tempo. Molto più probabile che siano state sbagliate le stime iniziali.

Una situazione più estrema si è verificata nell’ultimo quinquennio con le regole in vigore per i lavoratori impegnati in attività usuranti. Rispetto a una platea stimata in 10-11mila persone all’anno che, sommando età anagrafica e anni di contributi versati, avrebbero potuto accedere alla pensione in anticipo rispetto al trattamento di vecchiaia, la media è stata di 2.500-3.000 richieste accolte, anche perché i paletti che accompagnano i requisiti anagrafico-contributivi sono particolarmente rigidi. Anche in questo caso il relativo budget, che serve per coprire la mancata contribuzione e gli anni di pensione aggiuntivi rispetto allo standard, è rimasto ampiamente inutilizzato, tant’è che poi è stato ridotto e le risorse dirottate altrove.

Anche l’avvio dell’ultima forma di flessibilità sembra non essere entusiasmante. Con la legge di Stabilità 2016 è stato introdotto il part time agevolato in base al quale i dipendenti del settore privato che maturano il requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia entro il 2018, possono ridurre l’orario, d’accordo con il datore di lavoro, del 40-60 per cento. L’assegno mensile, però, non si riduce in misura uguale perché il dipendente incassa, esentasse, la quota di contributi per le ore non lavorate che l’azienda dovrebbe versare all’Inps. Inoltre beneficia della contribuzione figurativa. A fronte di una copertura finanziaria di 240 milioni per il triennio 2016-2018, ci si aspetta che l’opzione sia utilizzata da 30mila persone. Nel primo mese di applicazione, però, l’Inps lo ha concesso a poco più di 100 persone.

Gli interventi sul sistema previdenziale devono bilanciare i vantaggi per i pensionandi e salvaguardare al contempo l’equilibrio dei conti. Per soddisfare il secondo requisito, l’anticipo pensionistico (Ape) prevede l’erogazione di un prestito a carico del pensionando, in modo da non incidere troppo sul bilancio dello Stato. La prospettiva di smettere di lavorare 3 anni e 7 mesi prima di quanto richiesto per accedere alla pensione di vecchiaia è sicuramente allettante, ma il costo a carico dell’interessato potrebbe costituire un freno. Tuttavia l’ “opzione donna” sembra rimescolare le carte: pur di andare in pensione con un anticipo medio di 5-6 anni, oltre 64mila lavoratrici hanno accettato una decurtazione dell’assegno nell’ordine del 35 per cento.

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