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Si riapre il fronte della legge elettorale

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Si riapre il fronte della legge elettorale

ROMA

A 23 giorni dalla riapertura della Camera e a tre mesi dalla data del referendum sulle riforme costituzionali, torna in primo piano la partita della legge elettorale. A dispetto di chi nel Pd, dal premier Matteo Renzi al vicesegretario Lorenzo Guerini, insiste nel ritenere sbagliato legare l’Italicum alla legge che segna l’addio al Senato elettivo e al bicameralismo paritario, i due piani sono destinati inevitabilmente a incrociarsi. Se non altro per una questione di tempi.

A settembre a Montecitorio andrà al voto una mozione di Sinistra Italiana che punta a sfrondare la legge elettorale, entrata in vigore il 1° luglio scorso, da «tutti gli evidenti profili di incostituzionalità». L’eventuale approvazione non avrebbe effetti concreti (la mozione ha soltanto valore di indirizzo) ma sarebbe un chiaro segnale politico, l’invito esplicito di un ramo del Parlamento a cambiare l’Italicum. D’altronde, la linea di Renzi - che da giugno ha annunciato il suo “silenzio stampa” sulla legge elettorale - è chiara: l’Italicum non è blindato, è facoltà delle Camere modificarlo. Come invocato, all’indomani delle elezioni amministrative che hanno consegnato il quadro di un’Italia tripolare anziché bipolare, non più unicamente dalle opposizioni (tutte tranne il M5S e Fi, che rimanda ogni discussione a dopo il referendum) e dalla minoranza Pd, ma anche dal presidente emerito Giorgio Napolitano e da una larga parte di esponenti dem, da Dario Franceschini a Matteo Orfini.

C’è poi il piano giuridico, con l’appuntamento clou del 4 ottobre, quando sarà la Consulta a pronunciarsi sulla costituzionalità della legge elettorale, grazie alla questione sollevata dai tribunali di Messina e di Torino. Ogni scenario è aperto, compreso quello che potrebbe vedere i giudici costituzionali ripetere il copione già utilizzato per il Porcellum: bocciare alcune parti del provvedimento, che significherebbe comunque dire addio all’Italicum come varato, con doppio turno e premio di maggioranza alla lista che supera il 40% dei voti. La presidenza del Consiglio si è costituita in giudizio: la tesi dell’Avvocatura dello Stato nei due atti di intervento depositati (una memoria dovrebbe arrivare a settembre) è che si è in presenza di una «lite fittizia», dal momento che «nessuna elezione si è svolta in base a questa legge» e «nessuna lesione del proprio diritto può essere addotta da alcun cittadino».

Il fronte di chi chiede correzioni intanto si allarga. A proporre uno stop al doppio turno è stato ieri, in un’intervista al Mattino di Napoli, il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che ha spiegato: «Un premio di maggioranza proporzionale al risultato potrebbe evitare le coalizioni forzate e al contempo garantire buone probabilità di governabilità». Ma Orlando si allinea ai vertici del Pd quando aggiunge che «chiunque dica che vuole cambiare l’Italicum, a partire dalla minoranza del Pd, deve verificare se esiste una maggioranza per farlo nella direzione che si auspica».

Il nodo è quello. Perché ognuno ha la sua ricetta. I bersaniani - che già hanno minacciato di votare no al referendum se la legge elettorale resterà così com’è - puntano sul Mattarellum 2.0 già depositato alla Camera e al Senato: turno unico e premio di governabilità. «I cittadini tornerebbero a scegliere i parlamentari in collegi uninominali», sintetizza Roberto Speranza. Miguel Gotor plaude comunque all’intervento di Orlando: «Credo anche io che qualunque nuovo modello elettorale dovrà prevedere l’abolizione del ballottaggio che non si addice a un modello di democrazia parlamentare come il nostro».

Franceschini e i suoi propongono di assegnare il premio di maggioranza alla coalizione e non alla lista, d’accordo con una parte di Forza Italia e con gli alfaniani del Nuovo Centrodestra. I giovani turchi di Orfini guardano al modello greco, con turno unico e premio di maggioranza al primo partito. I Cinque Stelle hanno il loro “Toninellum” dal nome del deputato Danilo Toninelli che ci ha lavorato: un sistema proporzionale “corretto”, con un misto di circoscrizioni medio-piccole e tre più grandi. Ma accusano gli altri partiti di voler ritoccare l’Italicum, che li favorirebbe (l’Istituto Cattaneo ha definito il M5S «macchina da ballottaggio»), soltanto per danneggiarli.

Il cantiere è aperto e procederà di pari passo con la campagna referendaria. Dal fronte del sì Pier Ferdinando Casini liquida così la questione: «La legge elettorale non c’entra, tutti sanno che sarà cambiata». Il punto è che «dire no al referendum sulle riforme è dire no all’Italia». L’esatto opposto di quanto pensa il M5S, che ieri sera - alla tappa di Giulianova, in Abruzzo, del #CostituzioneCoastToCoast, il tour in scooter di Alessandro Di Battista - per il no ha schierato l’artiglieria: il candidato premier in pectore Luigi Di Maio e il garante Beppe Grillo, sempre più presente, nonostante l’annunciato «passo di lato». Il viaggio estivo è puntello indispensabile per l’agognata metamorfosi pentastellata da forza di protesta a forza di governo. Di Maio ha invitato a resistere: «Al massimo un altro anno, poi ci saranno le elezioni e li manderemo a casa».

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