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«la prima verità»

Campiello a Simona Vinci e all’amore femminile sullo sfondo dell’orrore

Simona Vinci, autrice de «La prima verità» e vincitrice del Premio Campiello (Ansa)
Simona Vinci, autrice de «La prima verità» e vincitrice del Premio Campiello (Ansa)

La giuria popolare del Premio Campiello ha trasformato in realtà l’esortazione contenuta nel nome di Simona Vinci, che si è aggiudicata ieri sera il riconoscimento letterario conquistando 79 voti su 280 validi. Una cinquina, questa della 54esima edizione, connotata da un forte impegno civile e, per 4 dei 5 romanzi, da uno stretto legame con fatti storici del secolo passato. Sono firmati da autrici e parlano di amore tra donne, sullo sfondo dell’orrore, i due primi classificati: La prima verità (Einaudi) della Vinci e anche Le regole del fuoco di Elisabetta Rasy (Rizzoli, 64 voti).

La prima verità è ambientato in parte a Leros, in Grecia, dove le caserme della base militare italiana furono trasformate in un enorme ospedale psichiatrico per gli “incurabili” di tutto il Paese. Qui, rinchiusi in condizioni più che disumane: incredibili, sopravvivevano più di 4mila pazienti, ridotti nel tempo per far spazio ai dissidenti politici della dittatura dei colonnelli (al loro posto oggi dormono i migranti). Il romanzo diventa più intenso nella quarta parte, quando Vinci descrive la sua esperienza con i mali della psiche, più diffusi, sfumati e sfuggenti prima di tutto a noi stessi di quanto vogliamo credere, perché dentro la mente «tutto è vero, anche quando non lo è».

Elisabetta Rasy, dopo essersi lungamente documentata sulle corrispondenze delle donne che partirono volontarie per assistere i feriti della prima guerra mondiale, racconta la vita di due di loro: Maria Rosa, aristocratica napoletana in fuga dalla famiglia e da un ambiente sociale che le imponeva un futuro di moglie, ed Eugenia, arruolatasi per dimostrare al padre la sua vocazione di medico e potersi così iscrivere all'università. Feriti senza nome né storia arrivano a frotte, smembrati, irriconoscibili, deliranti e muoiono perlopiù senza che si sia potuto nemmeno tentare di salvarli. L'insensatezza della guerra, l'oscenità della morte sembrano non lasciare più spazio alla vita. Ma sulle macerie di tutto quel che credevano di conoscere le due ragazze sperimentano una fragilità e una pienezza mai sospettata: si innamorano, tra loro. Per Elisabetta Rasy è l'occasione di far conoscere il ruolo che le donne ebbero nel primo conflitto mondiale quando andarono al fronte o anche in fabbrica, a fianco o al posto degli uomini, tra la derisione e la diffidenza di questi ultimi. Iniziò così un lento, mai terminato, processo di emancipazione. E anche l'occasione per riportare l'attenzione su tema ancora tabù, a giudicare dallo sconcertante clamore che tuttora suscitano film e vicende che nulla hanno di provocatorio, come La vita di Adele (2013), di Abdellatif Kechiche, racconto romantico e delicato della passione tra due ragazze.

Andrea Tarabbia (62 voti) sceglie invece apparentemente di indagare la follia di un uomo solo in Il giardino delle mosche. Vita di Andrej Čicatilo (Ponte alle Grazie) che racconta la storia romanzata del “Mostro di Rostov”, un uomo impotente dall'infanzia rovinata che scoprì che uccidere gli provocava la più intensa eccitazione della sua vita. Tra il 1978 e il 1990 uccise 56 persone, torturandole, stuprandole, mutilandole e a volte mangiandole. Ma il sesso, e la frustrazione che per lui ne derivava, non era l'unica sua ossessione: l'altra era l'Unione Sovietica. Una fede per lui, che si sentiva investito dalla missione di ripulire la società di quegli elementi “deviati” (prostitute, emarginati, vagabondi) la cui esistenza rappresentava il fallimento della Grande idea comunista. La follia personale diventa così metafora di quella collettiva del totalitarismo.

Alessandro Bertante in Gli ultimi ragazzi del secolo (Giunti, 34 voti) parte dalla coda delle guerre jugoslave, raccontando un viaggio lungo la Neretva fino a Mostar e Sarajevo nell'estate del '96, per parlare della sua generazione, gli adolescenti degli anni 80, mentre il loro desiderio di autodistruzione si specchia nella devastazione del conflitto balcanico.

Prescinde dal narrare fatti storici - ma non dalla passione civile che, in alcuni di questi romanzi, ci si chiede se sia stata più surrogato che fonte d'ispirazione - il romanzo Doninelli Le cose semplici (Bompiani, 41 voti) con i suoi personaggi allucinati che pontificano su quel che si sarebbe dovuto fare per evitare l'apocalisse in una Milano (e poi Parigi e New York) che non scintilla più di luci artificiali, ma è trapassata dalle radici degli alberi come una moderna Angkor Wat in cui la gente vaga in un eterno presente.

Il premio Campiello alla carriera è stato assegnato allo scrittore padovano Ferdinando Camon, il Campiello opera prima a Gesuino Nemus ( La teologia del cinghiale , Elliot), il Campiello economia al giornalista Dario Di Vico e il Campiello giovani alla diciassettenne milanese Ludovica Medaglia (nomen omen) con il racconto Wanderer.

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