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Flessibilità Ue per innescare investimenti e competitività

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L'Analisi|l’analisi

Flessibilità Ue per innescare investimenti e competitività

«Morire d’austerità? No grazie». Questo sembra essere il leitmotif che regolarmente emerge ogni autunno con la discussione sui nuovi obiettivi di finanza pubblica. E tutto il capitale politico viene poi speso sui tavoli europei per ottenere qualche spicciolo di flessibilità in più, spingendo verso il limite la capacità di prendere tempo, di posticipare, di rimandare le scelte più difficili ad un futuro improbabile nel quale la ripresa economica, come per magia, farà tornare nell’oblio queste discussioni pedanti. Ma se si vuole flessibilità, questa dev'essere utilizzata bene.
Ci sono certamente motivazioni serie che potrebbero giustificare una politica fiscale più accomodante. Vediamo la prima.

L’economia mondiale è scivolata da tempo su un crinale di bassa crescita e di inflazione vicina allo zero, e la politica monetaria ha sempre più le armi spuntate. I capi di stato recentemente riuniti nel G20 hanno detto che anche la politica fiscale deve giocare il suo ruolo nello stimolare la crescita mondiale «per far sì che la tassazione e la spesa pubblica diventino più favorevoli alla crescita, dando priorità agli investimenti di qualità elevata». Anche il Presidente della BCE, Mario Draghi, pur ribadendo l’importanza delle regole di bilancio europee, ha chiaramente indicato che la politica di bilancio deve supportare la ripresa economica. I paesi che hanno margini nei loro bilanci li devono usare e i paesi che hanno dei surplus nei loro conti con l’estero li devono trasformare in supporto alla domanda interna. L’Italia dovrebbe cercare una crescita più bilanciata a livello europeo, cioè con più domanda interna in Germania. Paesi come l’Italia, che non hanno spazio di manovra a causa dell’elevato debito pubblico, dovrebbero concentrarsi su una ricomposizione del loro bilancio più favorevole alla crescita. Negli ultimi anni la spesa corrente è diminuita in Italia, ma meno che in altri paesi. Conseguentemente, le tasse non si sono sostanzialmente ridotte e la spesa per investimenti è scesa notevolmente. Anche la più recente positiva inversione di tendenza non è stata molto pronunciata, soprattutto rispetto ad altri paesi come la Spagna.

È ragionevole «prendere a prestito» i quattrini della flessibilità, soprattutto se in presenza di tassi di interesse vicini allo zero, per investire nel futuro del paese, con infrastrutture, formazione scolastica e universitaria, ricerca e innovazione. Ma in passato, numeri alla mano, la flessibilità sembra abbia aiutato ben poco in questo senso e molto dev'essere ancora fatto per rendere la spesa pubblica più favorevole alla crescita.

Una seconda motivazione riguarda più squisitamente la sfera politica. In sostanza si argomenta che, per continuare lo sforzo delle riforme e compensarne i loro costi, bisogna mantenere la pace sociale e il consenso per l'esecutivo, evitando derive populiste. Tuttavia, anche in questo caso i conti non tornano pienamente. Le iniziative del governo non hanno aiutato molto a rendere la società italiana più inclusiva e limitare il voto di protesta delle persone lasciate ai margini a causa della globalizzazione e dalla crisi economica. L’abolizione della TASI favorisce chi la casa ce l’ha già, mentre le misure per contrastare la povertà sono state più volte rimandate e le risorse messe a disposizione sono state poche (è pur vero che a volte la protesta arriva anche da chi avrebbe meno ragione di protestare). Eppure, la riduzione della povertà estrema non è solo una misura di solidarietà e di inclusione sociale, ma anche un ottimo investimento economico. Consente infatti di mantenere «impiegabile» una fascia di popolazione che rischia di scivolare al di fuori del mercato del lavoro. E probabilmente riduce anche il voto di protesta.

Inoltre, le riforme sul mercato dei prodotti sono state dimenticate. Aumenterebbero la concorrenza e quindi il potere d’acquisto delle famiglie e permetterebbero di compensare, almeno in parte, i costi sociali ed economici delle riforme. Ma la legge annuale sulla concorrenza, pur già ampiamente annacquata, è stata lasciata giacere in Parlamento per due anni. E queste, peraltro, sono riforme che non peserebbero molto sul bilancio pubblico. Inoltre, avrebbero sì dei costi elettorali specifici, ma darebbero benefici diffusi a tutti i cittadini, e probabilmente contribuirebbero anch’esse a ridurre il voto di protesta.
In sostanza, non sembra che lo spazio fiscale preso a prestito con la flessibilità sia stato prevalentemente utilizzato per l’inclusione sociale, per ricucire una società sempre più disillusa dalla politica e dilaniata dalle conseguenze della crisi, e che quindi è potenziale preda del populismo dilagante.

Infine, indubbiamente l’Italia soffre ancora per la grande stretta sulla domanda aggregata del 2012 e 2013. Basta questo per giustificare l’utilizzo della flessibilità semplicemente per dare un supporto alla domanda?
Il supporto alla domanda ha in genere effetti solo temporanei e poche esternalità positive. Varrebbe dunque la pena affrontare di petto i problemi dal lato dell’offerta: perché gli investimenti privati continuano a latitare e rimangono quasi il 30% al di sotto del livello pre-crisi? Perché la produttività rimane depressa anche nella fase iniziale della ripresa? Queste sono le vere domande a cui bisogna dare risposta.

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