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La «galleria» degli uomini di Stato

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Attualità

La «galleria» degli uomini di Stato

Carlo Azeglio Ciampi e Papa Giovanni Paolo II
Carlo Azeglio Ciampi e Papa Giovanni Paolo II

Ha lavorato, fino a un paio di anni fa, quando ancora la salute lasciava sfogo a un ingegno sempre indomito, a una sua personalissima “galleria” di uomini con il senso dello Stato e delle istituzioni, di altrettanti testimoni che incarnassero la sua idea di missione civile e di testimonianza.

Carlo Azeglio Ciampi voleva comporre così una sorta di ritratto collettivo di quel che egli intendeva per classe dirigente. Un’élite di uomini all’altezza dei compiti che è chiamata a svolgere in una società libera, democratica, culturalmente, civilmente, economicamente progredita. Individui, uomini e donne, che per competenza, intelligenza dei problemi, senso di responsabilità, capacità di cogliere e di interpretare i segnali di cambiamento abbiano una non comune capacità di declinare l’interesse generale, oltre i loro pregi e difetti personali.

Aveva riordinato le carte su Einaudi, Parri, Valiani, Mattioli e poi ancora Baffi, Carli, La Malfa, Maccanico. Sul suo “maestro” Calogero. E altri ne voleva ancora scegliere. Non ultimo Giovanni Paolo II, l’amico ormai santo; primo incontro nei rigidi protocolli del cerimoniale istituzionale e poi un sodalizio sempre più informale, intimo, quando non segreto. Per Ciampi quell’amico speciale era stato esempio vivente di come andasse condotta la battaglia dell’ultima ora, lasciando alla lucidità del pensiero la supremazia e il riscatto di una fisicità inevitabilmente declinante. Ciampi aveva bene in mente quale fosse la sua missione, il suo dovere di testimonianza di una vita generosa e ricca di momenti straordinari, per i quali nutriva un senso di «obbligo di restituzione».

Lo guidava forse il retaggio mazziniano - da ultimo uomo del Risorgimento, quale egli sapeva di essere - e quell’imperativo morale: «La vita è missione e quindi il dovere è la sua legge suprema». Non ha mai smesso di andare nell’ufficio di Palazzo Giustiniani anche a prezzo di sforzi sempre più defatiganti. Poi il morso del tempo e del destino ha reso gli acciacchi, via via, problemi più seri e limitanti. «L’età - diceva - impone con implacabile progressione le sue limitazioni, ma mi dà tempo per riflettere e leggere».

Lo crucciava soprattutto l’ansia di trasmettere ai giovani un’idea di integrità morale, di rispetto civile, di partecipazione attiva alla vita politica che scaturisse dalla fatica dell’applicazione rigorosa e dallo studio severo e disciplinato. Ma anche dal coraggio e dalla forza delle proprie convinzioni da porre sempre al servizio del dialogo costruttivo e arricchente. Il bersaglio della sua polemica e del suo disprezzo era la cultura della velocità, dell’improvvisazione e della scorciatoia furba. Rispetto alle nuove generazioni nutriva un forte senso di attesa fiduciosa. E di ottimismo. Senza indulgere nella retorica del tempo passato migliore del presente. Ma avendo bene a mente quali fossero i difetti dell’oggi.

Non ebbe remore a concordare un titolo provocatorio e malinconico per il libro sui 150 anni dell’Unità d’Italia: «Non è il Paese che sognavo». «Pesteremo i calli a più d’uno» disse con quel raro sorriso scanzonato (privilegio assoluto per chi ne beneficiasse) che lo riportava alla sua livornesità abrasiva e irridente. Sapeva di essere il padre della riscoperta della Patria, il simbolo vivente di un inaudito revival di orgoglio nazionale in un Paese dove la lingua ha creato il popolo e non la spada come nella maggioranza del resto d’Europa. La sua dedizione nel ravvivare la memoria nazionale è riuscita a superare ogni deriva cinica e disfattista trasformando quella riscoperta in un vitale strumento di comunicazione con i cittadini.

Non lo ha mai dimenticato e, sempre, il suo essere uomo di cultura ha conferito un sovrappiù di umanità e di acume ai ruoli istituzionali via via ricoperti.

Una fase “leopardiana”, questa degli ultimi anni. L’autore classico preferito, fin da quando quindicenne compra a rate i cinque volumi dell’opera completa mondadoriana. Resterà un filologo-umanista prima di essere banchiere centrale, premier e presidente della Repubblica. Era un uomo di lettere. Leopardi affiorava, negli ultimi anni, nella rilettura che ne faceva accompagnato dall’interpretazione di Natalino Sapegno, come campione di un’Italia in grado di ampliare e rendere più intensa la prospettiva culturale abbracciando tutti i sentimenti, i problemi, le ideologie del mondo contemporaneo. Con una inevitabile nota malinconica di senso della limitatezza e della perfettibilità dell’uomo. «L’età certamente fa affiorare quella vena sentimentale ed emotiva che in altre stagioni della vita scorre più sotterranea» aveva scritto agli studenti della Normale, da cui proveniva e di cui si sentiva orgogliosamente parte.

Aveva fatto realizzare un ex libris tratto da un passo delle «Metamorfosi» di Ovidio che sono state l’orientamento morale di una vita intera: «Il Creatore ha creato gli animali con la faccia prona ma agli uomini dette un volto sublime e comandò loro di guardare eretti il cielo e di volgere lo sguardo verso le stelle». Dunque dignità e orgoglio come tratto distintivo e originario dell’essere umano.

Per questo pretendeva la schiena dritta, fossero giornalisti, politici o funzionari di banca e non solo. Si arrabbiava se un giovane non mordeva il freno, se non guardava oltre il proprio naso, se non accettava sfide apparentemente impossibili. Era severo e giusto. Con se stesso innanzitutto fin da quando aveva rischiato l’esaurimento nervoso a studiare nottetempo i classici dell’economia per tenere fede al nuovo ruolo affidatogli all’Ufficio studi da Paolo Baffi, per nulla preoccupato di mettere tra il fior fiore degli economisti nazionali un uomo di lettere (con seconda laurea giurisprudenza) con la sola esperienza di congiuntura territoriale e di economia reale acquisita da «ispettore di campagna» come si definiva allora. Si capirà ben presto quale colpo di genio fu quella scelta. E Ciampi dieci anni dopo diventerà capo dell’Ufficio.

Ci ha insegnato che la vita è sempre studio, fino alla fine. E per chi resta già affrontare l’eredità multiforme di un uomo di Stato di questa grandezza è essa stessa una sfida di studio. Frustrante e difficile per l’enormità di quel testamento prima morale poi intellettuale e politico.

C’era ancora un po’ di Mazzini in quel curriculum irripetibile e unico: l’educazione è il pane dell’anima. Un’anima forte e austera, buona e saggia, quella di Carlo Azeglio Ciampi. Che ci lascia con lo smarrimento sbigottito di chi perde una guida. A noi resta la consolazione di leggere tutto quello che ci ha lasciato sentendo nella mente quell’inflessione toscana severa e profonda così adatta a dire cose solenni che pare la sola lingua parlabile dai patrioti. Buon viaggio presidente. Forza e coraggio donna Franca.

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