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Entrare nell’euro la «sua» vera sfida

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Entrare nell’euro la «sua» vera sfida

  • –Paolo Peluffo

Ho visto tante volte Ciampi scrivere la sua lettera di dimissioni, per lasciare un incarico; l’ho visto contare i giorni che mancavano alla fine del suo mandato; l’ho ascoltato spiegare che non si doveva essere smaniosi di avere incarichi, che si deve saper uscire di scena. Una sola volta, Ciampi volle fortemente, con convinzione, un incarico pubblico, e fu quello di ministro del Tesoro nel governo Prodi del 1996. Lo volle, perché quella sfida, entrare nell’euro tra i primi, a testa alta, convincendo gli altri del risanamento italiano, quella era la sua sfida, ci credeva profondamente; credeva anche di poter dare un contributo decisivo, perché gli altri, gli europei, lo sapeva, si fidavano della sua parola, si fidavano di lui. E credo di non aver mai partecipato a una corsa sfrenata, indiavolata di lavoro, di impegni, di viaggi, di interviste, interventi, convegni per convincere gli europei della solidità del cambiamento italiano, come accadde in quei due anni, tra il 1996 e il 1998.

Per la stessa ragione, credo di non aver mai veduto Carlo Ciampi così sconvolto, addirittura furibondo, come il giorno della caduta, per un solo voto, del governo Prodi nell’ottobre del 1998. Non molti sanno, e non molti ricordano, che Ciampi vide in quella caduta sfumare la “fase due” dell’operazione di ingresso nell’euro, ovvero la costruzione di una politica economica, di una politica industriale, di un piano di rilancio del Mezzogiorno che avrebbero dovuto costituire l’altra faccia della medaglia della unione monetaria, della stabilità del cambio, dei bassi tassi d’interesse. E non era affatto solo un’idea, un’intenzione, ma un progetto organico in via di elaborazione. Ciampi, con Vincenzo Visco avevano cominciato a viaggiare insieme nelle principali città del Sud. Fabrizio Barca, con un gruppo di economisti, avrebbe dovuto costruire la struttura del progetto. Io venni spedito da Franco Modigliani nel Massachussetts per ragionare su come aggiornare e integrare il patto sul costo del lavoro, per farlo diventare un patto per lo sviluppo. Ne uscì fuori un’intervista, molto complessa e articolata, al Sole 24 ore nell’agosto del 1998. L’idea di Ciampi era quella di tenere agganciata la sinistra alla maggioranza di governo convincendo gli industriali a un piano di investimenti che allargasse la base produttiva in Italia, sfruttando i bassi tassi d’interesse, operando sui volumi, e dunque sui ricavi globali, e non sui ricavi unitari, in cambio di una flessibilità da ricercare all’interno dell’accordo del 1993. L’intervista fu presa malissimo da tutti. Nessuno era disponibile a cedere un pezzetto della rendita di posizione acquisita in quel momento. Ma nonostante la pessima accoglienza, Ciampi, uomo che non si abbatteva certo facilmente, continuava a pensare come necessaria e urgente una svolta completa di politica economica per preparare il Paese, con anni di anticipo, al momento fatidico di introduzione della moneta unica. Questa fu la posta in gioco che vide sfumare, evaporare quel giorno alla Camera con il voto di fiducia perduto per un solo voto. E anche nei momenti più belli degli anni a venire, quando Ciampi, ormai presidente della Repubblica, percepiva l’affetto del popolo per il suo lavoro di “pastore” della comunità nazionale, di “insegnante” per i ragazzi con i quali amava fermarsi a parlare, anche allora diceva con rammarico: magari avessimo avuto due anni, due anni di tempo in più!

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