Quello presentato martedì notte è un quadro costruito sul pessimismo della ragione (la dinamica della crescita tendenziale poco sopra il mezzo punto percentuale l'anno prossimo) e sull’ottimismo della volontà (un obiettivo di crescita dell’1% per il 2017, nonostante le difficili prospettive dell’economia internazionale). Con molta fiducia nella capacità di comprensione da parte della Commissione europea per le circostanze eccezionali, come il terremoto, o come l’emergenza immigrazione pressoché interamente a nostro carico, che faranno salire il deficit programmato(pari al 2% a fronte di un tendenziale dell’1,6%) di altri quattro decimi di punto, a quota 2,4% del Pil: in totale, 16 miliardi in più. C’è però un punto per il quale i conti non tornano già ora, nell’aggiornamento del Def e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan l’ha ammesso subito. Si tratta del rapporto debito-Pil, di cui il governo con il Def in aprile si era impegnato a invertire la dinamica da quest’anno e che purtroppo nel 2016 salirà ancora, a quota 132,8 del Pil, nonostante lo “sconto” di mezzo punto percentuale derivante dalla revisione del livello del Prodotto appena apportata dall’Istat. La colpa principale di questo sforamento è del denominatore, cioè del Pil nominale, una variabile che tiene conto sia dello sviluppo dell’economia reale che dell’inflazione. Nel vecchio scenario programmatico del governo, formulato ad aprile, si prevedeva per il 2016 un aumento del Pil nominale pari al 2,2 per cento; il tasso minimo di crescita nominale che avrebbe consentito al rapporto debito- Pil di scendere era pari a circa il 2 per cento. Invece, questo incremento è rimasto un miraggio: se tutto andrà bene, la crescita reale dell’economia quest’anno sarà dello 0,8%(non l’1,2% ) mentre l’inflazione tende a zero. Va detto, come ricorda l’economista Stefania Tomasini di Prometeia, che ad aprile scorso tutti i previsori pensavano che vi sarebbe stata una risalita del prezzo del petrolio e che per questo motivo anche da noi i prezzi sarebbero stati meno freddi. Va detto, inoltre, come lo stesso presidente del Consiglio si è affrettato a sottolineare, che con questi chiari di luna dei mercati dei capitali sarebbe stato da irresponsabili forzare le privatizzazioni per cercare di rispettare il target di mezzo punto di Pil (8 miliardi) che il governo stesso si era dato.
Resta il fatto, però, che a forza di farli slittare in avanti nel tempo, gli obiettivi strategici diventano meno credibili. Chissà se le privatizzazioni si potranno fare nel 2017; chissà se una dinamica del Pil nominale pari all’1,8 per cento l’anno prossimo permetterà davvero allo stock del debito italiano di scendere in rapporto al prodotto nel 2017 (gli esperti di Prometeia, per esempio, non ci credono e collocano la riduzione di questo parametro direttamente nel 2018). Soprattutto, il monitoraggio della dinamica del fabbisogno dovrebbe rimanere molto stretto, tenendo conto del fatto che la Bce non ha ancora sciolto la riserva sul che fare con il suo programma straordinario di acquisto di titoli, dopo il mese di marzo del 2017. La storia della grande crisi che abbiamo alle spalle ci insegna che i paesi ad alto debito pubblico sono sempre i più esposti a qualunque shock negativo.
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