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«Dobbiamo attenderci turbolenze sui mercati nei prossimi due anni di negoziato, forse anche più a lungo». Detto fatto: mentre il Cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond enunciava un facile presagio, la sterlina precipitava dello 0,9% sull’euro e metteva a segno la più rapida caduta contro il dollaro degli ultimi trent’anni, arrivando a 1,28. Potenza del messaggio sulla Brexit pronunciato dalla signora premier Theresa May domenica pomeriggio al congresso del partito conservatore a Birmingham.
Due elementi sono alla radice dell’indebolimento del pound. Il tono netto che Theresa May ha voluto usare per escludere ogni possibile tradimento della volontà popolare, avocando a sè, e non a Westminster, il potere ultimo di decisione e per riaffermare che la “difesa” dall’immigrazione intra-Ue è elemento centrale della strategia di una Londra tornata «sovrana e indipendente». In secondo luogo il mercato dei cambi ha avvertito il brivido di una tempistica che si è fatta d’improvviso reale. La signora premier ha confermato che entro il marzo del 2017 sarà innescato l’articolo 50 capace di regolare il recesso dei membri Ue dal consesso comune. Significa che la Gran Bretagna ha – da oggi – due anni e mezzo per chiudere la trattativa probabilmente più complessa, in assoluto, fra una capitale e l’istituzione a cui appartiene.
Brexit è dunque divenuto evento inevitabile salvo colpi di scena che il mercato non considera. E tanto è bastato per spingere all’ingiù la sterlina mentre il Ftse cresceva sull’onda anche di nuove notizie positive dall’indice Pmi sulla manifattura. balzato a quota 55,4 nel mese di settembre. Una crescita dal 53,4 di agosto che si spiega con l’ottima performance delle esportazioni sulla scia, appunto, di un pound debole.
Continua così la sequenza di notizie positive sulla dinamica economica del Regno Unito, molto più solida di quanto era stato previsto il giorno dopo il referendum. Una dinamica che si regge quasi esclusivamente sull’indebolimento della sterlina. A determinare però la tenuta dell’economia è la realtà di un fenomeno – la Brexit appunto – che farà sentire i suoi effetti nel tempo.
Che la Brexit sia destinata a farsi sentire nei prossimi anni èassolutamente convinto il Cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond. Dal palco di Birmingham dove la conferenza nazionale del Tory party proseguirà fino a domani, ha previsto «turbolenze» prossime venture, promettendo di essere pronto a «prendere qualsiasi misura necessaria per proteggere il Paese». Le prime sono già state anticipate nei giorni scorsi e indicano un allentamento della marcia di risanamento voluta dal suo prodecessore, Geroge Osborne. «Il popolo ci ha eletto per riportare disciplina di bilancio. È quello che faremo – ha agiunto – ma in modo pragmatico e alla luce della nuova realtà di oggi. Il deficit è insostenibile e la decisione di abbandonare l’Ue crea nuove incertezze». Il 23 novembre, Philip Hammond presenterà la finanziaria di metà anno, il primo documento che porta la sua firma e quindi varato nel contesto della Brexit. Molte cose cambieranno a cominiciare, probabilmente, dal taglio della corporate tax ora in marcia verso il 17% ma non più destinata a calare al 15% come George Osborne aveva immaginato.
Philip Hammond appartiene alle deboli fila dei remainers, ma si è allineato alla volontà della signora primo ministro evitando qualsiasi riferimento a misure capaci di annullare il voto popolare. Ieri è stato netto. «Non ci sono se, non ci sono ma, non ci sarà un secondo referendum. Stiamo lasciando – ha detto - l’Unione europea. Ma è altrettanto chiaro che il popolo britannico il 23 giugno non ha votato per diventare più povero o meno sicuro». Un passaggio significativo, quest’ultimo, che conferma la volontà del Cancelliere di eterodirigere, nei limiti del possibile, la trattativa con Bruxelles. È lui il portatore degli interessi economici del Paese che passano anche per una solida impresa dei servizi finanziari.Il banking chiede da tempo che, anche se fuori dall’Unione, Londra continui a mantenere una presenza nel mercato interno, condizione imprescindibile per avere il “passaporto” strumento indispensabile per operare dalla City su tutto il continente. A chiedere un Regno Unito senza frontiere con il resto dell’Ue sono anche i produttori di auto. Jaguar ha denunciato i rischi del cosiddetto hard Brexit, ovvero una rottura radicale fra Londra e Bruxelles. Think tank indipendenti hanno calcolato che il costo per lo storico brand automobilistico britannico sarà non inferiore a 1 miliardo di sterline. Più spiccio Carlo Ghosn, ceo di Nissan, che ha confermato di aver congelato gli investimenti in Gran Bretagna fino a quando la nebbia sui tanti equivoci legati a Brexit non si sarà diradata. Nissan occupa 7000 persone a Sunderland, città che il 23 giugno ha votato in modo schiacciante (61% si) a favore del divorzio anglo-europeo.
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