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Il senso delle istituzioni prevalga nel «day after»

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l’analisi

Il senso delle istituzioni prevalga nel «day after»

Servirà, servirebbe una buona dose di senso dello Stato e delle sue istituzioni, all’indomani del referendum sulla riforma costituzionale del governo Renzi, quando la situazione sarà la meno auspicabile in una democrazia: un contrasto, una frattura netta, verticale nella comunità politica e, per induzione, nel paese, intorno alle regole della convivenza istituzionale. Una frattura iniziata con piccole crepe in una sufficientemente ampia coesione politica e poi apertasi via via fino a proiettare i due opposti schieramenti in una campagna senza freni e dai toni sovente apocalittici. Tanto da prospettare, rispettivamente, nel caso di una propria sconfitta, rischi di involuzione autoritaria da parte del fronte del “no”; e, da parte dei difensori della riforma, un definitivo, irrimediabile pantano istituzionale. Due trincee, incapaci di dialogo, apparentemente indifferenti alla prospettiva di una ricomposizione di un ampio quadro di consenso intorno alle regole fondamentali della politica. Che muoia Sansone... se vincono gli altri: ecco il vero pericolo .

Che il senso dello Stato e dell’interesse generale non pulluli nelle comunità politiche anche democratiche, sopraffatto dal culto del consenso purchessia, è un oggettivo dato di fatto, non un’opinione. Per questo è auspicabile che le basi di una futura ricomposizione emerga nella parte restante della ancor lunga campagna referendaria. Almeno da parte delle persone responsabili, che pur ci devono essere qua e là: e con il concorso attivo delle più alte personalità dello Stato, anche oltre la loro attuale funzione. Con la rinuncia, per iniziare, ad alcune inutili astuzie, quale quella di confondere la semplificazione del procedimento parlamentare, cavallo di battaglia del sì, con il risultato di una semplificazione delle leggi, due concetti potenzialmente alternativi. E con la considerazione che la asserita, menomata dignità delle camere è il frutto non di forze cattive contrapposte ad altre buone, ma dell’intera comunità parlamentare, che ha profittato – nei rispettivi, alternati periodi di governo del paese -, di scorciatoie procedimentali che hanno via via deformato il limpido iter legislativo scolpito in costituzione. E che ha la propria premessa nella pari dignità e la reciproca autonomia tra i due principali protagonisti costituzionali, parlamento e governo.

Chiunque governerà il paese dopo le prossime elezioni, e dopo quelle che si succederanno alle prossime, lo potrà fare utilmente – per sé e soprattutto per i cittadini - solo disponendo di percorsi istituzionali e parlamentari non ostruiti e non ostruibili oltre la fisiologia dei ruoli di maggioranza ed opposizione. Sensibili al diritto di governare, nella forme imposte dalla modernità; ma non depressivi dei diritti delle minoranze, rivolti al controllo ed alla denuncia delle condotte di chi governa, in vista delle successive consultazioni.

Diciamo subito che, con il concorso di una base parlamentare la più ampia possibile, questo risultato è – si può dire ovviamente - raggiungibile all’indomani del 4 dicembre, puntando a ricostruire quell’equilibrio tra i poteri legislativo ed esecutivo che dalla Costituzione non è mai disceso pienamente nelle aule del parlamento e nei palazzi del governo, lasciando che la bilancia pendesse sempre da una parte o dall’altra. Dalla parte del parlamento, lungo l’intero periodo che ci si ostina a chiamare prima Repubblica, per compensare l’esclusione pregiudiziale dal governo di uno dei due grandi partiti dell’epoca; dalla parte del governo nei decenni successivi, con goffi e prevaricanti strumenti di prassi diretti a concentrare la funzione legislativa nelle mani dell’esecutivo. Si è legiferato, negli ultimi cinque lustri, direttamente nei palazzi del governo, e in modo precipuo a palazzo Chigi (così come si governava , nei decenni precedenti, dalla camere): imponendo alle camere stesse di ingerire testi incontenibili in un solo boccone, privandosi della facoltà, costituzionalmente costitutiva della propria funzione, di emendare, perfino di votare i singoli articoli. Perfino di pronunciarsi sull’oggetto legislativo , sostituito da una meccanica, reiterata dichiarazione di adesione al governo. Per cui il nostro archivio legislativo è ripieno di testi votati dalle camere nel modo descritto, senza riferimento alcuno al contenuto dei testi stessi, ai loro obiettivi.

Quando si parla della necessità di ritrovare la dignità del parlamento, si intende soprattutto questo: tornare ai meccanismi costituzionali di approvazione delle leggi, alla fisiologia della decretazione d’urgenza e della delegazione legislativa, riportando questi istituti al carattere di legislazione straordinaria ben disegnati nella carta costituzionale. Questo risultato, a nostro parere, è raggiungibile in caso della vittoria del sì, alla condizione ineludibile di una pulizia chirurgica degli archivi parlamentari dalle prassi e dai precedenti in grande parte sostanzialmente incostituzionali. Da farsi subito, con il consenso più ampio possibile. Ed è raggiungibile, con qualche intervento sui regolamenti di entrambe le camere che riproduca un potere reale del governo sui tempi di approvazione di taluni disegni di legge governativi, nel caso di una bocciatura popolare della riforma costituzionale.

Questo, e non le tattiche politiche di questa o quella forza politica, è il vero obiettivo da raggiungere, questa la posta in palio, con quel briciolo di senso dello Stato che sarà pur rimasto, qua e là . Alla peggio, pensando, ogni forza politica, che in democrazia vige la regola, non scritta, dell’alternanza alla guida del paese , e che il buon funzionamento delle istituzioni serve a tutti.

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