Chi si aspettava un finale di partita dalla direzione Pd, l'ora X in cui la minoranza avrebbe detto no al referendum, si è trovato dinanzi a un altro limbo. I dissidenti non votano a favore né contro Renzi e il cerino continua a passare di mano.
Se un cittadino qualunque o un qualunque elettore del Pd chiedesse cosa ha deciso la direzione di ieri e cosa ha deciso la minoranza sul referendum, si sentirebbe rispondere in politichese. Si sentirebbe dire, cioè, che ci sono stati interventi di esponenti della minoranza che hanno insistito sulla distorsione che provoca l’Italicum abbinato alla riforma costituzionale e che su questa obiezione – che è un punto dirimente - Renzi ha proposto una commissione per valutare le proposte di correzione. E se ancora chiedessero come ha votato la direzione del Pd, si sentirebbero dire che non ci sono stati voti contrari, né astenuti ma che l’area di Bersani, Cuperlo e Speranza non ha partecipato alla votazione mentre – forse - parteciperà alla commissione con uno (o due) membri della minoranza. Tutto chiaro?
Non ancora. Per la chiarezza su quale bivio imboccherà il Pd sul referendum si deve ancora aspettare. E non è un’attesa da poco visto che un conto è se il Pd riuscirà a ritrovare l’unità, altra cosa è se sceglierà di presentarsi al voto del 4 dicembre con una spaccatura conclamata. Quel test, insomma, dividerà gli italiani e pure gli elettori Democratici che dovranno scegliere tra due idee di partito e di rappresentanza politica. Questa è la posta in palio: se la minoranza voglia o no sottoporre al referendum anche il futuro del Pd.
Nell’attesa è stato passato nelle mani della sinistra il cerino della “commissione” che vale quel che vale. Perché quello che potrà fare è solo diventare sede di un confronto interno tra le varie proposte di modifica, nulla di più. Una sede interna che non potrà dialogare all’esterno con le altre forze parlamentari che non hanno alcuna intenzione di scoprire le carte e discutere di legge elettorale prima del referendum. E si capisce. Almeno per tre ragioni. La prima è che il sì o il no alla riforma costituzionale disegna due modelli molto diversi. Un conto è avere una sola Camera, un conto è se tutto resta com’è anche con il Senato. È evidente che se la riforma venisse respinta, cadrebbe anche l’Italicum e automaticamente nascerebbe il tavolo della revisione alla legge elettorale.
Ma l’altra obiezione è che se anche dovessero vincere i sì, le correzioni all’Italicum promesse ieri da Renzi e fortemente volute dalla minoranza - ma anche da altre parti del Pd - avrebbero il fiato corto. Qualche settimana, forse un mese. All’inizio del nuovo anno, infatti, è attesa la sentenza della Corte Costituzionale che avrebbe dovuto già decidere sulla legittimità delle regole ma ha rinviato la scelta a dopo l’esito referendario. È vero che il Pd potrebbe già mettere in discussione il ballottaggio o le liste bloccate ma, alla fine, tutti preferiranno aspettare il percorso suggerito dalla Consulta. E fare le modifiche sulla traccia della Corte. Questo è il piano sostanziale, tutto il resto è tattica.
La tattica di Renzi che passa il cerino nelle mani della minoranza con l’offerta di una commissione, la tattica della minoranza che goccia dopo goccia sembra preparare il terreno per lo strappo. Tra i renziani si parla apertamente di una prossima scissione, con tanto di logo già scritto, ma anche questa scelta resta affidata al bivio del referendum.
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