Nessun governo di scopo se Renzi perde il referendum. Ma il premier deve lasciare e una nuova legge elettorale è necessaria. Le condizioni che ieri dettava Di Maio non chiariscono un punto “aperto” della partita referendaria: cosa succede dopo? Chi governa mentre il Parlamento riscrive il Porcellum? Ieri Luigi Di Maio ha avuto modo di spiegare a più riprese il suo scenario del “dopo”. Secondo lui, in caso di vittoria del “no”, il premier deve dimettersi ma non se ne deve andare. Nel suo schema «ci sarà un governo per gli affari correnti in carica, che sarà di Renzi, si modifica l’Italicum e poi si va a votare». Come si dice, fa i conti senza l’oste. Senza il Quirinale, a cui compete la scelta, e senza il premier che dovrebbe accettare di restare dov’è -dopo una sconfitta popolare pesantissima - solo perché fa comodo ai 5 Stelle. L’impianto di Di Maio, insomma, è molto fragile ma ha una ragione: l’imbarazzo ad aprire la strada a un Esecutivo non eletto dagli italiani. Questo è il punto. Che il leader del Movimento non nega, anzi lo ammette. «Il rischio – ha detto – è che si faccia un altro governo di scopo che in realtà comincerà a fare altre leggi oltre quella elettorale che non erano nel programma». Per una forza politica che si è sempre richiamata alla volontà popolare, questo effetto collaterale del “no” crea più di un disagio.
Lo dimostra anche il modo in cui fu bloccato Alessandro Di Battista un mese fa. Nella trasmissione televisiva Otto e mezzo, aveva detto: per me, si può votare anche nel 2018, trovare un altro premier e un governo di scopo e fare quindi la legge elettorale. Tempo qualche ora e fu subito smentito da Di Maio che ieri si arrampicava su un Renzi dimissionario ma ancora in carica. E lo stesso disagio si sente anche nelle altre opposizioni. In Silvio Berlusconi, per esempio. Qualche giorno fa, nella sua prima uscita a favore del “no”, ha ripetuto che è contrario a governi che non siano passati per il voto degli italiani. Una posizione da campagna elettorale, per allontanare da sé l’ombra degli inciuci e di un ritorno a braccetto con il Pd dopo la rottura ma che elude del tutto il tema.
C’è insomma un “non detto” che tiene in sospeso lo schieramento contrario alla riforma e che avvantaggia chi sostiene la tesi del “giorno del giudizio”. Se è vero che Renzi e i sostenitori del “sì” fanno propaganda agitando lo spettro del caos istituzionale e politico, dall’altra parte non c’è ancora chi ha smontato pienamente questa tesi. Rispondere che il premier deve restare dov’è, pur dimissionario, o che non deve dimettersi – come dicono i sostenitori del “no” del Pd – non è una soluzione ma solo un modo per evitare di spiegare cosa succede se davvero Renzi lascia. Questo è il tema scomodo. Non c’è l’exit strategy delle urne perché l’Italicum, senza la riforma costituzionale, sarebbe da riscrivere e dunque si dovrà necessariamente trovare un modo per continuare la legislatura. Con quale governo? E, soprattutto, sostenuto da quali forze politiche in Parlamento? Mettere sul tavolo ipotesi più realistiche sul dopo, dire agli elettori cosa possono aspettarsi, anche questa è una questione di trasparenza. Ieri Di Maio è stato investito dalla polemica sulle spese - 100mila euro fatte in tre anni - ma la trasparenza in politica non può riguardare solo scontrini e rimborsi.
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