Sei mesi fa, al grido di «accelerazione», governo e maggioranza decisero di abbinare il ddl sulla prescrizione a quello sul processo penale. Quell'accordo politico, però, fu il primo passo verso il baratro in cui stanno precipitando entrambe le riforme.
Oggi è difficile fare previsioni sulla sorte dei 40 articoli del provvedimento, ribattezzato «riforma della giustizia penale». Approdato in Aula a fine luglio, lì è rimasto e rimarrà per altre due settimane (non è in calendario) e quasi sicuramente, ormai, fino al 4 dicembre, cioè fino al voto sul referendum costituzionale. Matteo Renzi non vuole rischiare né incidenti né polemiche prima di quella data, tanto che ha bloccato il ricorso a una fiducia già autorizzata. Né l’incontro di ieri con Anm e avvocati gli ha fatto cambiare idea. Peraltro, lo scenario politico del dopo-voto è talmente incerto da non autorizzare previsioni sulla sorte della riforma.
Galeotto, quindi, fu l’abbinamento deciso il 27 aprile scorso. Una scelta politica sbagliata, anche se giustificata pubblicamente con l’obiettivo di sbloccare il Ddl sulla prescrizione, licenziato dalla Camera il 22 maggio dell’anno prima ma poi fermatosi in commissione Giustizia, al Senato, dopo la presentazione degli emendamenti. Quel 27 aprile, il Ddl sul processo penale era appena uscito dalla discussione generale in commissione, quindi aveva appena cominciato a muovere i suoi primi passi (dopo il via libera della Camera). La riforma della prescrizione - sebbene bloccata - era più avanti e contava solo 6 articoli; il Ddl sul processo penale doveva ancora entrare nella fase degli emendamenti e di articoli ne contava ben 35, per di più “pesanti” e sulle più svariate materie (intercettazioni, impugnazioni, carcere, aumenti di pena per alcuni reati). Divisivi entrambi, si decise però di unirne la sorte per «accelerare» la prescrizione. Quello doveva essere il messaggio politico. E mediatico.
In realtà, quello fu solo un abbraccio mortale. Far salire la prescrizione sul treno appena partito del Ddl sul processo penale significava rallentare la corsa di entrambi e creare le condizioni per una serie di scambi politici che avrebbero potuto anche trasformarsi in pesantissimi veti. Com’è infatti accaduto, complici una situazione politica sempre più frammentata e, soprattutto, il referendum sulla riforma costituzionale.
I 6 articoli del Ddl sulla prescrizione avrebbero potuto essere approvati in due mesi, a dir tanto. Quindi, con un bel margine di anticipo rispetto alla delicata fase politica che, di lì a poco, si sarebbe aperta in prospettiva del voto referendario. In varie occasioni Renzi si era esposto sulla riforma che avrebbe «raddoppiato i termini della prescrizione» e l’Ocse ci aveva aperto una linea di credito dopo le misure anticorruzione approvate, e quelle in cantiere. L’occhio di Parigi era, come sempre, puntato in particolare sulla riforma della prescrizione, considerata «strutturale» e perciò necessaria per ridurre il rischio di morte prematura dei processi di corruzione, rischio non scongiurato dai semplici aumenti di pena di alcuni reati (come i dati dell’Ocse dimostrano). Del resto, se ci fosse stata una reale volontà politica, il governo avrebbe potuto ricorrere al voto di fiducia.
Ha invece preferito l’abbinamento, creando un provvedimento da molti definito monstre, perché composto da 40 articoli eterogenei quanto a materie trattate (diritto penale, processuale, penitenziario) e a natura delle norme (molte delle quali sono di delega al governo, come quella sulle intercettazioni). Il monstre è andato avanti a fatica e soltanto a luglio è uscito, modificato, dalla commissione Giustizia, sulla base di un accordo politico poi rivelatosi fragile. Più che i dissensi esterni - di magistrati e avvocati - a pesare sono stati quelli politici, trasversali alla maggioranza, che hanno preso in ostaggio il provvedimento. Divenuto anche il terreno di un braccio di ferro politico tra Orlando - che all’accordo aveva lavorato e confidava di tagliare il traguardo già a settembre - e Renzi - preoccupato di eliminare ostacoli nella corsa al referendum.
Intanto, sul tavolo di Orlando e del Presidente del Senato Pietro Grasso è stata appena depositata la lettera in cui l’Ocse sollecita l’Italia ad approvare le nuove norme sulla prescrizione, per dare credibilità a una politica anticorruzione che, così com’è, resta drammaticamente monca.
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