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Perché i laureati scientifici fanno fatica a trovare lavori adatti (e…

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L’INDAGINE

Perché i laureati scientifici fanno fatica a trovare lavori adatti (e sono pagati poco)

(Fotolia)
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“Competenze sbagliate”? Sì, ma per eccesso. In Italia il 30% dei laureati in discipline tecnico-scientifiche fa fatica a trovare un lavoro adatto al suo profilo, perché in possesso di qualifiche troppo elevate rispetto alle competenze ambite dalle nostre aziende. Il dato emerge dall'indagine «Skill mismatch and labour shortages in the Italian labour market», uno dei report presentati all'interno del progetto di collaborazione New Skills at work avviato dall'Università Bocconi e Jp Morgan Chase.

La ricerca, a firma di Paola Monti (Fondazione Rodolfo Debenedetti) e Michele Pellizzari (University of Geneva), ha utilizzato dati Ocse per stimare il grado di corrispondenza tra le qualifiche dei candidati e le skills cercate sul lavoro. Risultato: nella Penisola, circa il 14% dei lavoratori si rivela sovra-qualificato (overskilled) contro una quota del 9% di sotto-qualificati (under skilled). Ma la quota di chi ha talenti in più lievita fino al 19,6% nel caso dei laureati e arriva a oltre il doppio (30%) proprio per i giovani che hanno scelto una formazione nell'area Stem (science, technology, engineering and mathematics: scienze, tecnologia, ingegneria e matematica).

LA QUOTA DI 'OVER-SKILLED' IN ITALIA
Nel nostro Paese i lavoratori sovra-qualificati sono il 14%. Ma la percentuale sale al 19,6% per i laureati

“Essere qualificati? Ti penalizza”
Il report ha utilizzato dati Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competencies), il test di verifica delle competenze a cura dell'Ocse, per misurare la corrispondenza tra le qualifiche possedute a livello formale e le skills spendibili sul mercato. L'Italia soffre di alcune lacune già note, come la bassa alfabetizzazione matematica e il deficit di formazione pratica. A spiccare, però, è l'incapacità del sistema economico di sfruttare a pieno le risorse più preziose “grazie” alla concentrazione in settori tradizionali o allo scarso grado di apertura all'innovazione delle sue imprese. Paola Monti, autrice dell'indagine e research coordinator della Fondazione Rodolfo De Benedetti, imputa parte del problema al ritardo tecnologico e digitale delle Pmi. «Le imprese italiane sono arretrate, concentrate in settori tradizionali e con poca spinta innovativa – dice Monti – Nell'area Stem almeno, perché negli altri settori non è così».

La diagnosi non riguarda tanto la possibilità di trovare impiego, quanto le condizioni che si offrono a contratto firmato. Senza dimenticare il paradosso che scatta sugli stipendi: visto il tenore medio-basso delle retribuzioni, diventa più conveniente specializzarsi di meno perché lo stipendio sarà comunque pari alla media. «Insomma: sta emergendo che le persone over-qualified sono penalizzate, dal punto di vista salariale, rispetto a una persona well-matched (nella media, ndr). Perché hanno investito di più in formazione a fronte di ritorni uguali a chi ha meno qualifiche» dice Monti. Un'interpretazione già emersa da un report del Centre for European policies studies, dove si evidenziava un ritorno basso o negativo nel rapporto tra anni di formazione e condizioni professionali: fatta una base di 100, per una studentessa laureata in ingegnerie o informatica il rapporto costo-rendimento rischia di diventare addirittura negativo (-32).

Il circolo vizioso di mismatch e produttività
Fabio Sdogati, ordinario di Economia internazionale al Politecnico di Milano, non è sorpreso dallo scontro tra competenze tecnico-scientifiche e richieste lavorative. Un risultato che smentisce le polemiche sugli “studi inutili”, visto che la crisi riguarda proprio i settori – in teoria – più ambiti. A certificarlo ci sono i quasi 40mila under 35 emigrati solo l'anno scorso, magari in cerca di retribuzioni più congrue: un ingegnere, in Germania, può essere pagato anche 10mila euro in più fin dal contratto di ingresso. «Già abbiamo uno dei numeri di laureati più bassi d'Europa – dice Sdogati - E nonostante questo le imprese e la Pa non sono in grado di assorbirli nella maniera adatta, come testimoniano i numeri impressionanti delle migrazioni all'estero». Le cause più profonde potrebbero essere due. Da un lato, la concentrazione su settori tradizionali e a basso valore aggiunto pesa sulla produttività. Qualche dato? Il Pil per ora lavorata in Italia è rimasto pressoché immobile dal 2000 al 2015, da 46,8 a 47 dollari l'ora (dati Ocse). In Germania è cresciuto di 8,4 dollari nello stesso periodo. «Insomma, siamo tra i Paesi Ue dove è calata di più – dice Sdogati – E la produttività cala se non si investe in innovazione». E qui si arriva al secondo handicap: gli investimenti in R&D, la ricerca e sviluppo. L'Italia spende poco più dell'1% del Pil nel settore, contro la media di tre volte tanto registrata in altri paesi europei. Minori finanziamenti significano minore sviluppo delle attività ad alto valore aggiunto, con l'appiattimento che ne consegue in termini di retribuzione. «Non solo le imprese non fanno ricerche, anche il governo non fa ricerca e quindi si cerca di spingere sulla riduzione dei salari – dice Sdogati – E la nostra competitività ne esce massacrata».

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