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La sfida di istituzioni efficaci

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Il referendum e le strategie politiche

La sfida di istituzioni efficaci

Invece di fare chiarezza, il dibattito referendario non fa altro che aumentare la confusione. Già è difficile promuovere una discussione pubblica su emendamenti costituzionali che hanno un evidente carattere tecnico. Se poi quella difficoltà viene sommersa dagli interessi politici, allora la confusione è garantita. Infatti, la vera divisione che si sta affermando nel referendum ha una natura politica, più che costituzionale. Per la larga maggioranza dell’élite politica, il problema non riguarda la scelta tra “bicameralismo simmetrico o bicameralismo differenziato”, ma la sopravvivenza o meno del governo Renzi. Tant’è che il fronte politico del No non entra mai nel merito della riforma né si è aggregato intorno ad un progetto alternativo di riforma costituzionale.

Così, pur di essere contro il governo Renzi, i leader del No dicono cose (oggi) che sono esattamente l’opposto di ciò che essi stessi dicevano (ieri). Per loro, evidentemente, la coerenza è un optional. Ciò che conta è trasformare il referendum nell’occasione per buttare giù il governo. Obiettivo legittimo, ma che andrebbe perseguito nelle prossime elezioni parlamentari. Se per l’Italia è un problema avere crisi di governo ogni anno (abbiamo avuto 63 governi in 70 anni, per non parlare dei vari rimpasti), probabilmente lo è molto di meno per diversi politici. Infatti, per loro, una crisi di governo costituisce una buona occasione per ruotare nelle posizioni di potere.

Eppure, se si riesce a superare la nebbia politicista, allora si può vedere che la questione sollevata dal referendum è importante. Può l’Italia disporre di buone istituzioni senza le quali non può esserci lo sviluppo economico e sociale del Paese? Che è come dire, si possono decidere politiche pubbliche efficaci in un contesto di istituzioni pubbliche inefficaci? E di questo che occorrerebbe parlare. Facciamolo, nonostante il politicismo. Limitiamoci a considerare solamente la riforma del processo legislativo. Si sostiene, da parte dei critici, che essa non cambia alcunché, anzi che il bicameralismo paritario rimarrà, ma più complicato di prima. È davvero così? Una giovane studiosa de La Sapienza, Maria Teresa Nunziata, ha preso in considerazione tutte le leggi (178) approvate dall’attuale parlamento bicamerale tra il 2013 e il 2015. Se la riforma fosse stata in vigore, l’89,8% di quelli leggi sarebbero dovute essere approvate dalla sola Camera dei deputati, poco meno dell’8% dalla Camera seppure dopo l’esame obbligatorio da parte del Senato delle regioni, e solamente il 2,8% da entrambe le camere. Oppure, si sostiene che non è vero che l’attuale bicameralismo paritario rallenti il processo legislativo, tant’é che quando c’è la volontà politica le leggi corrono come razzi verso l’approvazione.

L’ufficio studi del Senato della Repubblica ha calcolato come, nella precedente legislatura, una legge di iniziativa parlamentare abbia richiesto 442 giorni per essere approvata, una di iniziativa regionale 400 giorni ed una di iniziativa governativa 116 (pur considerando che per metà di quella legislatura c’è stato un governo tecnico, quello presieduto da Mario Monti, sostenuto da una larga maggioranza parlamentare). Oppure, secondo i dati della Camera dei deputati rielaborati dal CSC, nell’attuale legislatura l’approvazione di una legge ordinaria (cioè escludendo le leggi che hanno richiesto procedure particolari, come le leggi costituzionali) ha richiesto 563 giorni (in media) per passare dalla presentazione all’approvazione. Tenendo presente che il Senato ha impiegato (in media) 360 giorni per approvare una legge in prima lettura e 226 in seconda lettura.

Davvero la riforma non cambia niente? Come si vede, o la si butta in politica o si parla a vanvera. Infatti, la riforma consente al governo di richiedere alla futura Camera dei deputati di esprimersi su una legge considerata prioritaria entro 70 giorni. Così il Senato delle regioni può dire la sua su una legge approvata dalla Camera ma entro 40 giorni, anche se poi l’ultima parola spetterà a quest’ultima. Ciò naturalmente non vale per le leggi non ordinarie, specificatamente identificate (Art. 70), che prevedono l’approvazione di entrambe le camere. Eppure, anche sulla specificazione delle materie, su cui entrambe le camere dovranno votare, se ne sono sentite delle belle. A parte chi sostiene che quell’Art. 70 “è scritto male”, la critica ricorrente è che esso “è troppo lungo”. Trascuriamo i dannunziani di ritorno, preoccupati dell’estetica piuttosto che del Paese. Tuttavia, se il compito di questo articolo é quello di distinguere le competenze condivise (dalle due camere) da quelle della sola Camera dei deputati, proprio per prevenire i conflitti tra stato e regioni come è avvenuto sistematicamente negli ultimi quindici anni, come fa a non essere specifico? Si dia un’occhiata alla tanto celebrata Legge fondamentale tedesca ed in particolare all’Art. 74 del Titolo VII che identifica le materie su cui vi è una competenza legislativa concorrente tra il Bund (la federazione) e i Laender. Le materie specificate nel dettaglio sono ben 24, anzi erano 26 quando la costituzione entrò in vigore nel 1949.

Se si riesce ad uscire dalla nebbia del politicismo, allora la scelta referendaria è chiara. Si vuole lasciare il bicameralismo così come é (con il suo corollario di un processo legislativo lento, farraginoso e opaco) oppure si vuole sostituirlo con un bicameralismo differenziato (che consenta di accelerare il processo legislativo, di ridurre i veti, di responsabilizzare il parlamento e il governo)?

Una élite politica responsabile avrebbe dovuto approvare la riforma in Parlamento a larga maggioranza, esattamente quella larga maggioranza che si era costituita all’inizio del processo riformatore. Ma poi è rispuntato il politicismo e la razionalizzazione del nostro parlamentarismo è divenuta, per molti politici, una preoccupazione secondaria. Così, la si è “buttata in politica”, usando il referendum per un regolamento di conti.

Mi rendo conto che il populismo è imperante nel nostro Paese, tuttavia sarebbe ora di ripensare all’uso del referendum, sempre più piegato per raggiungere scopi che non sono i suoi. So, naturalmente, che il referendum è richiesto dalla nostra Costituzione, quando gli emendamenti a quest’ultima non ottengono una maggioranza qualificata dei voti in Parlamento. Come è stato il nostro caso. Tuttavia, é discutile la pretesa che i cittadini possano risolvere questioni di tecnica costituzionale. Essi debbono essere chiamati a decidere sulle grandi questioni politiche (come avvenne nel 1946, ad esempio, quando si trattò di scegliere tra monarchia o repubblica), ma come possono decidere con cognizione di causa tra il bicameralismo simmetrico e quello differenziato? Come ha scritto recentemente Bruce Cain, scienziato politico a Stanford, le richieste di “più democrazia” hanno spesso condotto a “meno democrazia”. Perché sono state utilizzate da élite politiche per preservare il proprio potere. Vedremo se succederà così anche dopo il 4 dicembre.

sfabbrini@luiss.it

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