La stabilità di governo per portare avanti il progetto riformista in Italia e in Europa contro il caos (leggi Movimento 5 stelle) e contro il ritorno dei soliti perdenti che vogliono solo riconquistare le antiche rendite di potere (leggi il variegato fronte del No che va da De Mita a Dini, da D'Alema a Brunetta, da Salvini a Berlusconi fino all'ormai perduta sinistra interna che fa riferimento a Bersani). Finalmente Matteo Renzi sembra aver scelto la cifra giusta, senza abbandonare l'originale piglio rottamatore, per tentare il tutto per tutto in questo mese scarso che ci separa dal 4 dicembre: quella della stabilità e del rischio del salto nel buio.
Alla Leopolda numero 7, la terza di governo per Renzi, c'è una paura vera, che viaggia neanche troppo sotto traccia: i sondaggi sono stabilmente in favore del No al referendum sulla riforma del Senato e del Titolo V ormai da settimane e se non la tendenza non cambia ora non cambia più. Questa volta si può perdere, rischiando di perdere tutto. E allora è inutile continuare nel tentativo di spersonalizzare puntando sulle questioni "tecniche" e di merito ed evitando di drammatizzare la scelta. Tentativo che per altro non sembra abbia portato molti voti al fronte del Sì. Premier e governo sono di fatto in campo, come ha dimostrato la presenza ai lavori di questa Leopolda pre-referendum di ministri di peso come Padoan, Calenda, Poletti, Pinotti. «L'anno che verrà, il 2017, sarà un anno fondamentale per l'Europa. In gioco c'è il destino dell'Unione e la questione della riforma dei Trattati. Su temi come migranti e lotta all'austerità non siamo più soli. Che Italia si presenterà a quell'appuntamento? Un'Italia che ha un progetto per l'Europa o l'Italia di una classe dirigente e politica che ha già fallito. Che Italia ci sarà, un governicchio tecnichicchio?». Governicchio tecnichicchio… Non poteva esserci conferma migliore della decisione già presa da Renzi di dimettersi in caso di vittoria del No, e come si capisce non sarà certo lui a guidare l'eventuale governicchio.
Fin qui il rischio di salto nel buio, guardando al decisivo voto moderato. C'è poi il recupero del piglio rottamatore originale quando Renzi sottolinea come al variegato fronte del No non interessa affatto la riforma con i suoi contenuti. «Sono stati tutti a favore del superamento del bicameralismo perfetto per 35 anni, e ora che noi la riforma l'abbiamo fatta dicono di no» scandisce il premier e segretario del Pd tra le ovazioni dei leopoldini. D'Alema continua a dire «noi l'avremmo fatta meglio, e allora perché non l'hai fatta tu?». Gli obiettivi degli oppositori alla riforma Boschi sono altri: «Il punto è un altro, ma quale articolo 70 troppo lungo. Loro vogliono bloccare tutto ciò che partendo da qui abbiamo fatto in questi anni. Difendono solo la possibilità di tornare al potere, di riprendersi quei posti da dove li abbiamo rottamati senza che neanche se ne accorgessero. Ma dobbiamo accettare la sfida con il sorriso. Perché hanno capito che il 4 dicembre è la loro ultima occasione per restare in pista». E ancora: «L'Italia è una, ma due sono le idee di classe dirigente: da una parte c'è un'idea di Paese e di Europa, dall'altra l'idea di quelli che vogliono solo restare in gioco e che se li mettete tutti in una stanza per trovare un accordo su qualcosa non escono più».
Il futuro del Paese da una parte. Il futuro del Pd e del suo progetto riformista dall'altra. Per Renzi le due cose sono legate, e a quella parte del Pd che è già in campo per il No (ossia Bersani e i suoi, anche se Bersani non viene mai nominato) è riservata l'accusa preventiva di assassini del Pd. «C'è amarezza in me, perché quelli che a sinistra si sono schierati per il No sono sostanzialmente gli stessi che 18 anni fa hanno decretato la fine dell'Ulivo perché non lo guidavano loro – sono le dure parole di Renzi -. E ora i teorici della ditta quando ci sono loro e dell'anarchia quando ci sono gli altri vogliono uccidere la più grande esperienza riformista in Europa. Ricordategli che Sanders in America sta facendo campagna elettorale per la Clinton e non per Trump».
Colpisce a questo punto dell'accalorato discorso di Renzi il grido che si alza dalla sala leopoldina "fuori, fuori" rivolto a D'Alema e Bersani. A sottolineare una frattura ormai non sanabile. L'accordo sulle modifiche alla legge elettorale con la minoranza di Gianni Cuperlo è stato siglato, agli occhi di Renzi il campo è stato sgombrato dal "combinato disposto" Italicum-riforma Boschi agitato da Bersani per settimane. Ora basta: o si sta da una parte o dall'altra. Il premier non si rivolgerà più alla pancia del suo partito ma al Paese, tentando da qui al 4 dicembre il tutto per tutto per convincere gli italiani ancora indecisi. Ma una cosa ai nemici interni, intanto, la manda a dire. «Il prossimo anno ci vedremo qui alla Leopolda dal 20 al 22 ottobre», butta là. Ossia poco prima del congresso del partito previsto per l'inizio di dicembre 2017. Può darsi che fra un anno Renzi non siederà più a Palazzo Chigi, ma di certo siederà ancora a Largo del Nazareno. Pronto ad un'altra battaglia, quella congressuale, per non ridare il Pd a chi c'era prima di lui.
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